Intervista ad Emanuele Salce, l’omaggio ai due padri Luciano Salce e Vittorio Gassman

Mumble Mumble - Confessioni di un orfano d'arte, il 1 e 2 dicembre a Perugia al Teatro di Sacco

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Teatro di Sacco, nell’ambito della 24 edizione della Stagione INDIZI, presenta Emanuele Salce in Mumble Mumble, Confessioni di un orfano d’arte, sabato 1 dicembre ore 21.00 e domenica 2 dicembre ore 17.30, Sala Cutu.
(Info & prenotazioni 320.6236109).

 

 

In attesa di un fine settimana da non perdere abbiamo posto alcune domande ad Emanuele Salce.

Lei è doppio figlio d’arte, ed orfano di due giganti che racconta in due giornate particolari, il loro funerali, ha elaborato il lutto della perdita di Luciano Salce e Vittorio Gassmann attraverso lo spettacolo Confessioni di un orfano d’arte?

 

 

“Quella è solo una constatazione, un dato di fatto”. 

“Il lutto io lo avevo già elaborato perché poi questo spettacolo era scritto a quasi vent’anni dalla scomparsa di mio padre, ed è più terapeutico aver elaborato le cose prima di avventurarsi su un palcoscenico con tutti i rischi che questo può comportare.

Sicuramente è un esercizio utile a chiudere dei cerchi o a completare un percorso, non è solo l’elaborazione di un lutto ma soprattutto una presa di responsabilità mia artistica, individuale ed umana, che avviene anche portando sulla scena un fatto privato che riguarda anche quelle due figure lì. Non sono lì a raccontare aneddoti.

Molti che non conoscono lo spettacolo possono pensare che sia una di quelle tante serate auto celebrative, in memoria di quei succosi anni.

No c’è  nulla di tutto questo. Nella parte iniziale faccio solo una piccola introduzione ma più per dare un clima, una suggestione, non sto lì a lavare i panni sporchi in pubblico, assolutamente”.

Parafrasando l’ultimo film di Gabriele Muccino, A casa tutti bene, La famiglia è bella e senz’anima?

“Non lo so, la mia era poco l’una e poco l’altra e di mie non ne ho ancora formate e forse non riuscirò ormai”. 

“La famiglia, piuttosto è un istituzione”.

Quella da cui io provengo era più che altro un insieme di  carrozzoni di artisti,  individui con ruoli non molto chiari o non canonici, quantomeno per come venivano interpretati.  Mi verrebbero più in mente i carrozzoni degli  artisti di un tempo, anche se io non sempre ero sul carrozzone, ho passato più tempo a casa con mia nonna che con altre figure.

Era una famiglia di gente impegnata. Anche i capitani di industria o i grossi manager passano poco tempo a casa. I miei erano professionisti affermati  che avevano anche dalla loro professione la massima fonte di gratificazione nella  loro vita, e credo anche di realizzazione personale e individuale”.

Realizzazione compiuta da Luciano Salce e Vittorio Gassman quindi?

“Quella professionale senz’altro, quella come padri non lo so”.

Secondo Jung esiste un inconscio collettivo familiare che se non elaborato condiziona i discendenti. Lei ha elaborato per così dire, le sue costellazioni familiari? Ha preso coscienza?

“Io l’ho avuta abbastanza presto, però l’ho avuta sempre in rapporto alla mia età, a quello che avevo vissuto, alle mie esperienze, all’ individuo vero, poi è cresciuta con me.Tante cose non si fanno bene se non si risolvono prima le tante magagne che ci affliggono. Più si è consapevoli della propria condizione e più si raggiunge la cognizione di causa. Io non mi sono mai negato la possibilità ne di soffrire ne di non capire delle cose, ma ho sempre cercato di arrivare a trovarne una soluzione, mai la più semplice e mai cercando un compromesso o una facilitazione, anzi ho avuto un grande talento  nel complicarmele le cose”.

Qual’è stato il suo momento di svolta?

“Se c’è stato un mio momento di svolta è stato intorno ai quaranta anni. Ce ne sono stati vari ma quello più importante è arrivato la”.

Ha attraversato un malessere vissuto durante l’infanzia scoprendo i suoi padri e raccontandoli  in Mumbe Mumble?

“No, quello è stato collaterale, riguarda il mio percorso individuale, sia dal punto di vista umano che affettivo, di posizione mia rispetto al mondo, di presa di coscienza, di presa di responsabilità e di messa in gioco, buttarsi senza fare cadute”

Ha perdonato i suoi padri?

“Certo, sì sì. A parte che con Vittorio c’è stata proprio una riappacificazione in vita, e devo dire che è stato lui a fare il primo passo verso i ventiquattro anni.

Con papà pur non avendo mai avuto scontri perché non c’era luogo a procedere, con l’analisi sono riuscito a rielaborare in maniera più chiara quello che poi era stato il nostro rapporto ed anche soprattutto il suo rapporto di figlio a sua volta.

Ho dovuto prima conoscere meglio la storia di mio padre per capire tante cose che prima da ragazzo, anzi da adolescente non sapevo comprendere, non avrei potuto comprendere”.

La sua famiglia ha dato molto anche al cinema, oltre che al teatro ed anche molti  spettatori si sentono orfani d’arte. E’ possibile recuperare la Grande bellezza perduta, parafrasando uno dei capolavori di Paolo Sorrentino?

“Noi abbiamo perduto tante cose, sia a livello politico che individuale, e sociale. C’è chi la chiama evoluzione, c’è chi la chiama involuzione, c’è chi la chiama cambiamento, c’è chi la chiama segno dei tempi, sicuramente il mondo va avanti anche senza di noi e anche senza i grandi che ci hanno preceduto. Io penso che bisogna conservare in un giusto archivio le grandi eredità ma a proprio vantaggio. Troisi ricominciava da tre, non a caso, quindi qualche cosa di buono tutti quanti dovremmo tenercelo ed esserne consapevoli”.

In questo momento mancano produzioni di qualità, c’è una sorta di ristagno culturale, è possibile superarlo?

 “Questo non è un Paese che aiuta molto l’esercizio della memoria e che poi non gli conviene nemmeno farlo perché uno si chiederebbe subito come mai siamo caduti così in basso. Negli altri Paesi come la Francia, come la Spagna o la Germania c’è molta più attenzione e molta più cura di queste cose. Noi sembriamo quasi temere il confronto col passato oppure ci siamo definitivamente abbrutiti e siamo incapaci.

Il nostro palato, le nostre papille gustative si sono così imbastardite a forza di mangiare ‘merda’ per decenni. E’ più facile sodomizzarci e farci mangiare qualsiasi rifiuto non recitabile”.

Da cosa dipende? Siamo in una democrazia fondata sull’ignoranza,  e perennemente incollata al piccolo schermo?

“Si è perso il senso del Paese, il senso della comunità. Siamo sempre più un accozzaglia di individualisti oramai disperati. Questa disgregazione avviene  per interessi più alti. Un popolo unito e un popolo coeso, consapevole è tutto ciò che il potere ha sempre combattuto fin dai tempi dei tempi. Una massa ignorante è più facilmente controllabile. E’ un sistema in cui noi siamo utenti, non più cittadini, siamo utenti compratori, e ci danno da mangiare quello che vogliono. Se il cibo non ci nutre le cellule cerebrali è un vantaggio per chi ci governa. Il potere da sempre governa molto meglio una massa meno consapevole, non ha interesse ad  accrescere la possibilità  di farlo diventare individuo pensante, ma di accrescere il proprio potere che ci arriva attraverso l’ipnosi televisiva“.

Può rinascere una stagione irripetibile? E semmai in che modo?

“E’ la legge della domanda e dell’offerta, io credo che noi siamo un Paese un po’ troppo di figli che si aspettano sempre che le responsabilità competano a qualcun altro, alla mamma o al papà o a un carabiniere e poi a fare giustizia e ordine. Invece dovremmo essere un po’ più indipendenti e prenderci le nostre responsabilità individuali di cittadini e fare il nostro sessanta milionesimo che ci spetta tutti uniti”..

Perciò il  cinema, e ancor più il teatro, sta attraversando una crisi profonda.  Ci sono ancora grandi artisti?

“Ci sono sempre. Sorrentino, Virzì, Garrone, Nanni Moretti, sono quelli conosciuti che conosciamo tutti. Ce ne sono anche altri che hanno avuto meno possibilità. Oggi si produce un decimo dei film che producevamo trenta quaranta anni fa. Da questo punto di vista il cinema è in crisi profonda, ma lo è il Paese, ripeto”.

Se il cinema è in crisi profonda, portare la gente a teatro è ancora più difficile?

“E’ molto complicato, è più facile portare il cinema in televisione”.

L’essere erede di due uomini  straordinari Luciano Salce e Vittorio Gassman è stata una condizione privilegiata?

“No per me è stata svantaggiosa. Davo per scontato che i figli d’arte non ereditassero il DNA, il talento dei loro padri. Anzi che c’erano solo esempi a riprova di questo. I grandi non sono mai stati figli d’arte. Non me la sentirei di paragonare Alessandro e Gianmarco a Ugo e Vittorio. Con questa consapevolezza, bisogna andare altrove, fare altre cose. I grandi, quelli veri non erano figli d’arte.Ne Fellini, ne Sordi ne Totò ne Marlon Brando ne Kubrick ne Kurosawa. Tra me e un macellaio e il figlio di un macellaio, ha molte più possibilità statisticamente il figlio del macellaio di essere un grande attore. I figli d’arte statisticamente vanno così a sopravvivere in un mondo dove forse non è richiesta la loro presenza. Quando io ho mosso i miei primi passi in arte ero già orfano da tanti anni. Il mio cognome più di fare simpatia in qualche sala d’attesa, era stato dimenticato”.

‘A ma tu eri il figlio di Luciano? Era carino papà, quanto era simpatico bravo. Perché sei qua? ‘

“Ecco era già finito, ma giustamente. Altri hanno scelto invece di stare con i padri in vita, in arte e crescere in arte con loro o nella ultima parte del loro periodo, imparando, apprendendo e venendo messi su strada. Nel mio caso non mi sono avvalso di questa facoltà”.

Perciò non si sente più orfano?

“Lo sono stato”.

Cosa significa Mumbe Mumble?

“Era un po’ un nomignolo, perché da bambino vivendo in casa di fini dicitori do ve sa era molto importante la dizione, e pronunciare le finali in maniera chiara ecco, se parlavi un po’ romanaccio. Io avevo di contraltare una pessima dizione e il rifiuto a parlare in maniera chiara, è una forma di ribellione”.

L’ha superata?

“Sì”.

I suoi rapporti con Andrea Pergolari e Paolo Giommarelli?

“Siamo veramente molto amici, c’è grande affetto siamo tutti e tre esseri umani molto diversi e nelle nostre diversità ci completiamo, sia in scena, sia nella scrittura,

siamo credo tre pazzi

fondamentalmente che ancora si divertono a stare assieme e a fare questo mestiere. Tre artisti  diversi, con storie diverse, con realtà diverse, tutto diverso ma assolutamente compatibili, in sintonia, uniti dalle stesse passioni, dagli stessi interessi, da un certo modo di guardare al mondo, alla vita, tenendo le nostre individualità ben demarcate, ma con grande rispetto, stima e amicizia.

Se lei pensa che ancora oggi con Paolo Giommarelli dopo otto nove anni che facciamo questo spettacolo , trecento e passa repliche ancora lavoriamo, cerchiamo di migliorare la battuta, ci tiene vivi questa passione, ancora aggiungiamo una frase, la cambiamo”

Ancora vi emozionate?

“Sempre, doverosamente. Verrà a vedere lo spettacolo spero”

Certo che sì.

 

 

 

 

 

 

 

 

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