di Stefano Ragni
Un pianista che incide un cd con musiche di Nicolai Medtner fa alzare subito le orecchie. Quando poi si scorre il suo curriculum si capisce perché la basilica di San Pietro sia piena di ascoltatori già da mezz’ora prima dell’inizio del concerto.
Alessandro Taverna, giovane pianista veneziano, non ha vinto clamorosamente nessun concorso, ma si è piazzato bene ovunque ne abbia affrontati, e dal 2009, dopo la competizione di Leeds, fa una carriera internazionale.
Ieri pomeriggio, 5 novembre, appena entrati nella chiesa di monaci sublacensi ci siamo posti un interrogativo: la sala dei Notari, evitata per il chiasso della Fiera dei Morti, li avrebbe contenuti?
Abbiamo girato la domanda alla presidente della Fondazione Perugia-Musica Classica che ha risposto con un chiarissimo: “Stiamo aspettando l’auditorium”.
Rimane comunque notevole la adesione dei soci e dei simpatizzanti degli Amici della Musica di Perugia ad una proposta tra le più serie e rigide che si potrebbe proporre; Bach in tutte le sue componenti, da quelle originali a quelle sovrapposte, ovvero le trascrizioni.
Oltretutto Taverna, con quel suo fare impettito, ma disinvolto, da svagato bibliotecario di Harry Potter, è proprio quello che ci si aspetta da un cultore di Bach: è serio, concentrato, interiorizzato.
E suona meravigliosamente, con un tocco arioso e cantante, e con una distribuzione di piani sonori che non esce mai da una dinamica contenuta e controllata.
E di parametri da osservare ne ha molti, dopo che, poeticamente, ha sfogliato la pagine di Wilhelm Friedman reso mormorante come un poema di Smetana dalla Trascrizione di Siloti, si è addentrato nella Ouverture nello stile francese di Bach padre.
Un monumento, un macigno, reso insidioso da tutti quegli arzigogoli che lo stile francese imponeva sulla tastiera: continui sussulti di trilli, gargarismi di gruppetti, avvitamenti di mordenti, il peggio del Rococò.
Tanto che c’è da chiedersi chi gliel’abbia fatto fare a Bach di addentrarsi in un terreno così poco congeniale ad un “parruccone” germanico come lui.
Eppure, col grimaldello del contrappunto, Bach ha avuto ragione di ciprie e tintinnii e ha fatto trionfare l’idea di un si minore austero, quasi travolgente in certi momenti di danza come le due Bourrée e la Giga.
Taverna omologa tutto nello stile di un Bach impeccabile e implacabile e firma una versione superba, valendosi anche delle sonorità piuttosto trasparenti di un Fazioli che forse non è tra i migliori, ma che lo asseconda in una continua richiesta di purezza.
Prosegue il concerto con il Bach “manomesso” dai pianisti del tardo Ottocento, insoddisfatti di quello che giudicavano un livello mediocre di difficoltà.
Di qui il gigantismo di Busoni, con la malagrazia del preludio corale BWV 615, “In dir ist Freude”, e il vociare tutto toscano di “Wacher Auf” BWV 645. Su un altro versante la delicatezza di Egon Petri nel trattare il tema dell’aria della cantata BWV 208, “Schafe koennen”, riprodotto da Taverna con tutta la grazia possibile.
Un tocco di virtuosità nella Partita BWV 1006 per violino trattata da Rachmaninov come se fosse una stesura per pianoforte a quattro mani, ma affidata ad un solo esecutore.
Si chiude con una pagina che è apparsa un po’ fuori quadro, il vecchio Preludio Corale e Fuga di Cesar Franck.
E’ormai una musica fuori del tempo, un cascame di religiosità gallicana dei tempi di quando i bersaglieri di Porta Pia avevano scacciato il papa-re.
Il musicista belga si avvita intorno ad un contrappunto cromatico che sembra il tormento di un Mefistofele redente e penitente che si aggiri tra le colonne di una cripta umida e oscura. L’uso migliore è quello che ne ha fatto Luchino Visconti nel suo “Vaghe stelle dell’Orsa”, un bianco e nero con Claudia Cardinale nella allucinata Volterra delle crete frananti.
Anche Taverna sembra avvertire la non-attualità di questa pagina e la suona come può, bene, ma senza convinzione. Convinzione di che?
Appagante il suo bis, una sarabanda di Bach vellutata, morbidamente setosa.