L’emergenza Covid-19 continua a imperversare. Ogni giorno, tutto il Paese attende con ansia il bollettino della Protezione Civile delle 18, quello che ci dà i numeri di questa emergenza e che speriamo possa indicarci il momento in cui, col calare dei contagi, si potrà intravedere la luce alla fine del tunnel.
I numeri ufficiali fanno paura, al momento della nostra intervista, si parla di oltre 130mila casi conclamati, oltre 17mila vittime. Ma, ciò che è peggio, è la consapevolezza che i dati ufficiali rappresentano solo la punta dell’iceberg.
Al di là dei numeri, però, ci sono le persone.
Fiamma (nome di fantasia) vive nel Pesarese. La sua famiglia è composta da due adulti e dal figlio, un ragazzo di 18 anni. Tutti e tre, a detta di ben due medici, hanno avuto i sintomi del Covid-19 e, grazie al cielo, sono usciti dalla fase attiva. Sono fortunati: hanno dei familiari che li hanno aiutati – a distanza di sicurezza – nella fase acuta e, grazie allo smart-work, possono continuare a lavorare, mentre il figlio, davanti a un pc, segue le lezioni dell’ultimo anno di liceo, in vista dell’esame di maturità virtuale. Nell’intervista che segue viene riportata in forma sintetica “l’avventura”, vissuta dalla sua famiglia.
Signora Fiamma, lei, suo marito e suo figlio avete affrontato e superato il Covid-19. Una sigla che spaventa, un virus che è riuscito a mettere sotto scacco l’intero pianeta. Venire a conoscenza di aver contratto la malattia non dev’essere stato facile…
“A dire il vero, a me e alla mia famiglia, la diagnosi è stata suggerita quando già la fase “critica” della malattia era superata… quindi abbiamo vissuto questa realtà, per metà, in maniera inconsapevole”.
Ecco, ci spieghi come sono andate le cose… Com’è cominciata?
“Tutto ha avuto inizio intorno al 3 marzo. Il primo ad aver manifestato dei sintomi è stato mio figlio. All’inizio, abbiamo pensato ad una normale influenza. Nulla di allarmante. Non aveva nessuno dei sintomi tanto paventati in tv, quelli per i quali dicono “andate subito in ospedale”. Niente tosse secca, niente febbre altissima. Nessuna difficoltà respiratoria”.
Suo figlio è giovanissimo, lei e suo marito, persone adulte. All’epoca in cui siete stati contagiati si pensava che l’emergenza riguardasse solo gli anziani, ormai anche questo mito è stato sfatato…
“Nel liceo di mio figlio, proprio la settimana prima che si ammalasse, abbiamo avuto la notizia di un ragazzino di 15 anni, che fa il secondo liceo, positivo al Coronavirus. Non a caso, il liceo di mio figlio – che conta 1500 studenti – è stato uno dei primi a chiudere”.
Quindi il primo caso a fine febbraio…
“Pesaro è stata una delle prime province ad aver manifestato dei contagi nella popolazione. Il primo caso conclamato è stato registrato a Cattolica che si trova in Emilia Romagna, ma chi conosce un po’ la geografia del nostro territorio sa che Cattolica è divisa da Gabicce, che si trova nelle Marche, solo da un canale. Moltissime persone di Cattolica mandano i figli a scuola a Pesaro, lavorano a Pesaro e nel territorio pesarese, più che nel Riminese. Fatto sta che, al momento della chiusura delle scuole, in tutta Italia noi avevamo più contagi conclamati di quelli emersi in Romagna”.
Immagino la paura di quei giorni…
Eravamo un po’ in ansia, ma in quei giorni ancora si tendeva a minimizzare, la tv e gli esperti dicevano che a rischiare erano solo gli anziani. Non eravamo preoccupati per i ragazzi. I sintomi di mio figlio erano quelli dell’influenza standard. Febbre un po’ alta, con il mal di testa, male alle ossa, soprattutto nella parte alta della schiena fin dietro la nuca. Poi, come accade normalmente nel decorso di un’influenza virale, il virus “scende”. Mio figlio, ribadisco, non ha avuto un colpo di tosse, non ha avuto raffreddore. Tutto però, normalmente, passa in 4-5 giorni, ma non è stato così. Quindi, all’inizio eravamo sereni.
Dopo 7 giorni sono stata io ad accusare i primi sintomi, seguita, dopo un giorno, da mio marito. Ed anche questo è normale… in una famiglia ci si ammala a catena…”
Quando avete cominciato a pensare che questa influenza avesse qualcosa di diverso?
“Una caratteristica del Coronavirus sono le cosiddette “ricadute”. Compaiono i sintomi, tra cui la febbre, poi passano, quindi riappaiono in maniera ciclica. In realtà non si tratta di ricadute, ci è stato spiegato, si tratta del normale decorso della malattia e della risposta immunologica che ogni organismo dà all’attacco del virus. Una risposta che è personale e varia da persona a persona. Mio marito, per esempio, non ha avuto “ricadute” a livello di febbre, io ho avuto “ricadute” con la febbre a 38, mio figlio con febbre fino a 37 e mezzo. Fatto sta che tutti e tre miglioravamo per poi peggiorare e migliorare ancora una volta. Questo per circa 3 settimane di fila.
Io ho iniziato a sospettare che si trattasse di Covid-19, quando alla prima ricaduta, sfogliando i giornali, ho letto di un sintomo, collegato a tutti i Coronavirus, tipo la Sars e il Covid-19: la perdita dell’olfatto e del gusto. E’ un sintomo riscontrato, stando alle conoscenza attuali, in circa il 30% dei malati di Coronavirus. Un sintomo peculiare, anche se non “obbligatorio”.
Anche noi avevamo questo sintomo, ma la stampa ne ha parlato, come sintomo peculiare, solo intorno al 16-17 marzo. Leggendo di questo sintomo sono rimasta come paralizzata: erano circa 10 giorni che noi non sentivamo più gli odori… non riuscivamo più a sentire il sapore dei cibi”.
E’ vero questo è un sintomo peculiare e, all’inizio, non si sapeva se si trattasse di un sintomo reversibile o meno… ce lo descriva meglio…
“Per quanto riguarda l’olfatto è come avere il naso chiuso, mentre in realtà le vie respiratorie sono libere. La questione del gusto è invece molto strana. A noi era rimasta la capacità di riconoscere solo alcune sfumature molto marcate dei sapori. La nostra lingua era in grado di riconoscere solo “tracce” di piccante, di salato, di amaro e di dolce. Per il resto tutto aveva il sapore della carta… carta salata, carta piccante… carta dolce. Senza alcun odore”.
Quindi, a questo punto in lei è scattato l’allarme…
“Premetto che noi eravamo già chiusi in casa da giorni, io avevo 38 di febbre… A questo punto ho deciso di avvertire il medico.
Per “l’influenzina” non avevo voluto scomodare il medico, visto anche il momento particolare che tutto il territorio stava affrontando.
Non volevo sovraccaricare il Sistema Sanitario”.
Quale è stata la risposta del medico?
“Lui è stato molto franco e ha confermato i miei sospetti. Io non ero in stato panico, quindi ha potuto essere sincero. “Che si tratti di un virus questo lo darei per certo al cento per cento – ha specificato – che sia o meno Coronavirus lo si può sapere solo con il tampone. La cura, tanto, al momento è la stessa. Solo se lei accusasse difficoltà respiratorie, bronchi chiusi, ecc. le darò un antibiotico”. Non abbiamo avuto questi problemi, quindi non abbiamo fatto l’antibiotico”.
Non siete stati ricoverati?
“In quei giorni Pesaro, pur non essendo ai livelli di Bergamo, iniziava a trovarsi in affanno. C’erano difficoltà nel ricoverare la gente. L’ospedale di Pesaro è stato destinato alla cura del Covid, mentre le altre specialità sono state trasferite a Fano. In ogni caso, l’appello ai cittadini era quello di non sovraccaricare l’ospedale, perché i ricoveri dovevano essere riservati a chi aveva difficoltà respiratorie. Il medico, comunque, si è impegnato a monitorare la situazione. Noi, a parte, la febbre non avevamo problemi respiratori. Eravamo malati da 10 giorni circa e sapevamo che “l’influenza da Covid” sarebbe durata circa 20. Abbiamo quindi continuato a rimanere isolati, ma tranquilli”.
Psicologicamente, come l’avete vissuta?
“Ciascuno di noi l’ha affrontata in maniera diversa. Mio marito, ad esempio, in un primo momento ha negato la possibilità che si trattasse di Covid-19, anche perché lui era quello che stava meglio di tutti. “Finché non abbiamo l’esito del tampone – ripeteva – non si può dire”. Io invece ho affrontato la notizia che si potesse trattare di Covid-19 come una rivelazione. Mi dicevo: ecco è questo, è arrivato e lo stiamo affrontando. In un certo senso mi sono sentita sollevata, anche perché il medico mi aveva spiegato che la fase più critica è quella iniziale, perché si vede subito se il sistema immunitario risponde in maniera positiva oppure no. Io ero già alla seconda settimana, quindi mi sono detta: non finirò in ospedale. Quindi all’inizio è stato un colpo al cuore, poi è subentrata la positività e la speranza di uscirne presto”.
Quindi cosa ha fatto?
“Io ho sentito il bisogno di prendere il telefono e di avvisare tutti, anche le persone che non vedevo da tempo. Avevo bisogno di condividere. Avevo bisogno di conforto e sentivo il bisogno di tranquillizzare.
E’ un po’ come quando hai avuto un incidente: sei vivo, stai bene, ma hai bisogno di rielaborare insieme agli altri. E poi volevo dire agli altri che il Covid-19 è un problema che si può superare. E’ sempre per questo motivo che ho accettato di raccontare anche a voi la nostra esperienza… per dare speranza!”
Poi cosa è successo?
“E’ arrivata la cosiddetta “terza ricaduta”, che è stata più leggera delle precedenti. Ogni “ricaduta” è stata più leggera della precedente. Ciò che invece persisteva era lo stato di forte debolezza e l’assenza di gusto e olfatto per l’intero corso dei 20 giorni. Ci siamo resi conto di essere guariti quando sono tornate le forze e quando abbiamo ricominciato a sentire gli odori e i sapori. A me, il tutto, è durato poco più di venti giorni.
E’ difficile spiegare, ma il nostro corpo sente quando c’è qualcosa che non va. Finché non è passato, anche se non c’è febbre, c’è senso di debolezza e di malessere. E’ una sensazione bellissima quando ti senti finalmente libero!”
Una volta passata l’influenza: cosa succede?
“Adesso ne siamo fuori, siamo contenti. Ci hanno dato la quarantena, ci hanno detto che sarebbe terminata 14 giorni dopo l’ultimo sintomo. La nostra quarantena è stata segnalata a chi di competenza dal medico. Adesso i 14 giorni sono passati. Quindi, a livello teorico, per noi è finita. Adesso, però si pone un nuovo problema…
Quindi voi siete stati segnalati, ma il tampone quando è stato fatto?
“Non l’hanno mai fatto. Né il tampone né alcun altro tipo di esame che possa appurare l’avvenuta guarigione. E questo è un problema. Le faccio un esempio: alcuni giorni fa ho avuto un altro problema di salute che non ha nulla a che fare con il Covid. Ho avuto un attacco di labirintite. E’ avvenuto di domenica, quindi ho chiamato la Guardia Medica, perché il mio medico non era di turno. Ho spiegato, anche a questo secondo medico, tutto e anche lui mi ha confermato che sia i sintomi, sia il decorso sono quelli del Covid 19. Quindi mi ha detto: “Signora, anche se non avete fatto il tampone, sono quasi certo che lei e la sua famiglia avete fatto il Covid-19”. Quindi, è emersa la necessità di acquistare un farmaco, ma noi di fatto, senza un certificato non possiamo uscire.
Il problema è che non sappiamo come dobbiamo comportarci. Quando possiamo uscire? Cosa possiamo fare? Cosa dobbiamo scrivere sulla certificazione? Noi siamo ancora chiusi in casa, con mia cognata che ci porta il cibo fuori dalla porta… Loro dicono che la guarigione avviene 14 giorni dopo la fine dei sintomi… però chi decreta quando sono finiti i sintomi? Lo dico io… Un’analisi che valuti la nostra immunizzazione serve a noi e serve agli altri.
Come faccio a scrivere sull’autocertificazione che sono sicura di non aver il virus. L’unica cosa che so, in maniera quasi certa, è che ho avuto il virus, ma che il virus sia stato vinto, non lo so.
In questo momento il tampone non serve più, sarebbe uno spreco, visto che ce ne è tanto bisogno per altre persone in attesa di una diagnosi… l’esame sierologico, invece, sarebbe una cosa gradita”.
Adesso quale sarà il prossimo passo?
“Devo chiamare il mio medico ed aggiornarlo sull’evoluzione della situazione. Lì sono colpevole… Ho aspettato che passasse anche la labirintite… lo farò tra oggi e domani”.
Ma non dovrebbe essere il Sistema Sanitario che si occupa del monitoraggio? Lei l’ha presa con lo spirito giusto, ma, come lei ha ben detto, spesso, il malato tende a negare… La consapevolezza dimostrata dalla vostra famiglia non è, purtroppo, la regola…
“Anche se siamo stati segnalati da ben due medici diversi, noi non abbiamo ricevuto una visita medica in casa, nessun vigile urbano è venuto a controllarci… Effettivamente stiamo vivendo un’emergenza a cui non eravamo preparati…
La provincia di Pesaro è molto colpita, la più colpita del centro-Italia. La verità è che siamo tutti stati colpiti da qualcosa di più grande di noi. Da parte dei medici noi abbiamo avuto supporto, ma sicuramente il sistema non era preparato…
Io non mi sono sentita abbandonata dal Sistema Sanitario, ma mi rendo conto che forse questa emergenza richiede un maggiore coordinamento.
Nel momento della malattia siamo stati supportati, anche psicologicamente, siamo stati tranquillizzati, la serenità di entrambi i medici nel rassicuraci mi ha… ci ha… aiutato molto… adesso manca il passo successivo… sapere cosa dobbiamo fare dopo…”.
Da parte di Umbria oggi non possono che arrivare alla signora Fiamma e alla sua famiglia, un augurio di cuore e un grazie per il spirito civico e di responsabilità dimostrato. Che la sua storia sia di esempio, che il suo racconto possa essere una speranza…
L’intervista per intero