Nella vita, a volte, è la presenza dell’assenza a coglierci impreparati ed a rivoluzionare le nostre convinzioni.
Trasferendo il linguaggio degli affetti al linguaggio artistico, Bruno Toscano, nel constatare la morìa di opere scultoree ad Orvieto e Perugia sul finire del duecento, coniava l’espressione “toccare con mano ciò che manca”. Non sarà peregrino, allora, se nel trattare il Viaggio in Italia di Flavio Cuniberto (Neri Pozza, 2020) comunicheremo le sue e nostre assenze.
Rivolgendoci prevalentemente al pubblico umbro, ci limiteremo – l’opera offre una panoramica su tutta la penisola – ad evidenziare l’umbratile esperienza che Flavio Cuniberto ha maturato dell’arte di questi luoghi. Due eventi intervallano lo sguardo e la mente dell’autore: la ricostruzione post-seconda guerra mondiale e il Concilio Vaticano II.
Al cospetto dell’altar maggiore della chiesa di San Domenico a Siena “gli angeli, splendidi, e il ciborio di Benedetto da Maiano (1475) vengono inghiottiti alla vista dell’orrenda vetrata absidale, moderna, nel tipico stile post-conciliare, con una vena ulteriore di espressionismo alla Picasso (i volti dei santi come maschere africane), e una santa Caterina dalla fisionomia stregonesca. La chiesa che sta al passo con i tempi (altro che vecchie pale quattrocentesche), e la gara tra francescani e domenicani su chi si aggiorna di più” .
Se la progressiva spettacolarizzazione o estetizzazione rinascimentale della scena sacra denunciata da John Ruskin nelle Pietre di Venezia non era coincisa con una perdita della qualità delle opere, la sancita apertura alla modernità del cristianesimo con il Concilio Vaticano II sembra affiancarsi all’abiura formale della ricostruzione post-bellica. Ed è nello stare “al passo con i tempi” – basta guardare l’armonia dell’altare senese nelle fotografie pre-belliche – che i due eventi si riducono ad uno solo, il cui ribaltamento non può che avere un afflato spirituale:
“Il paesaggio della provincia italiana mantiene un suo decoro, magari umile, fino all’anteguerra e ai primi anni Cinquanta, poi è il disastro. Come se un’intera società perdesse improvvisamente la bussola del costruire, affidandosi alla cieca all’estro, all’improvvisazione. E non sono gli edifici di grandi dimensioni, gli «ecomostri», a rovinare il paesaggio: l’ecomostro è il facile capro espiatorio di un crimine diffuso, a cui solo una spaventosa apocalisse potrebbe porre rimedio”.
Lasciandoci alle spalle la città della vergine, “ferma agli ultimi decenni dell’Ancien Régime” è agevole spostarsi – cor magis tibi Sena pandit – e varcare le porte della regione francescana. L’approdo in Umbria illumina sulle passioni dell’autore, principalmente per i preraffaelliti, inframezzati da lodi per opere più tarde. In una valutazione prima di tutto artistica che storica, non sorprende la svalutazione degli affreschi eseguiti da Pietro Perugino per il Collegio del Cambio in cambio di una rivalutazione dell’arredo ligneo, decorato magnificamente a grottesche da Domenico del Tasso. Anzi, in una visione così ampia e sottile, il magistero decorativo-artigianale – le cosiddette “arti applicate” – e l’architettura manifesterebbero l’indole perugina, “poco incline alla plastica e nemmeno eccellente in pittura”. Al di fuori di Vincenzo Danti, che seppur avvicinatosi al marmo sotto l’ombra di Michelangelo, rimane perugino di nascita e di cultura, non c’è nessun altro grande scultore attivo fra ‘400 e ‘500 a Perugia. Agostino di Duccio e Mino da Fiesole, celebri lapicidi attivi negli anni centrali del ‘400 e conosciuti nella città per l’oratorio di San Bernardino e il paliotto marmoreo destinato alla cappella Vibi in San Pietro, sono fiorentini di sangue e di tocco. Inoltre, non è trascurabile l’educazione del maggior pittore umbro del Rinascimento, Pietro Perugino, presso la bottega di Andrea del Verrocchio.
Tra la foschia pittorico-scultorea, insieme al portone in legno intagliato di San Pietro, “con quelle rose finissime e potenti, quelle formidabili ruote vegetali a triskelion e il coro di San Domenico con “quei viluppi di forme mostruose”, l’orizzonte verrebbe rischiarato dal Palazzo dei Priori, “il più bel palazzo pubblico del Medioevo italiano” ex aequo con il Palazzo dei Dogi a Venezia, e dalla fontana di Nicola e Giovanni Pisano, “vero «ombelico» della città, macchina simbolica roteante senza uguali fra tutte le fontane pubbliche del Medioevo” (Fig.4).
La grande stagione pittorica umbra – principalmente duecentesca e trecentesca – sarebbe altrove, innanzitutto Puccio Capanna ad Assisi. Fra gli affreschi cristologici di Puccio nel museo della Cattedrale di Assisi, un tempo sulla parete sopra l’altare dell’oratorio della fraternita di San Rufinuccio, la Pietà è definita “splendida” tanto da esemplificare “il Trecento ai suoi livelli più alti, di una morbidezza e un’intensità senza pari” . Che la grande stagione del medioevo artistico umbro sia altrove rispetto a Perugia lo conferma la recente mostra “Capolavori del Trecento: il cantiere di Giotto, Spoleto e l’Appennino” curata da Vittoria Garibaldi e Alessandro Delpriori.
L’Umbria “alla sinistra del tevere”, già depositaria di un autonomo linguaggio artistico sul calare del Duecento, ridiscute ed aggiorna il suo stile intorno alla stagione giottesca nella Basilica superiore e inferiore di Assisi. A Trevi, Spoleto, Montefalco la sfilata degli anonimi – il Maestro di Cesi, il Maestro della Croce di Trevi, il Maestro di Fossa, il Primo Maestro della Beata Chiara a Montefalco – detta l’inaudito e passionale ritmo, seminato nel secolo precedente e fiorito con Giotto.
Tralasciando, ora, il capitale problema del genius loci stilistico – per certi versi l’intera opera è un tentativo di svelare la natura dei vari luoghi, in primis cittadini – è interessante sottolineare come il flȃneur, rapito dalla Vergine con Bambino e angeli di Bartolomeo di Tommaso o dal fantastico portale di San Michele a Bevagna o, ancora, da Palazzo Cesaroni, attuale sede della regione, progettato da Luigi Calderini, dimentichi quasi completamente il contemporaneo, qualche sprazzo del museo Emilio Greco ad Orvieto e poco altro. Viene allora confermato il sospetto che il disfacimento formale post-bellico non riguardi soltanto l’aspetto architettonico della città ma anche la forma astratta dell’arte contemporanea.
Letta sotto un’unica lente, una tale prospettiva fornisce immediata giustificazione teoretica alle assenze contemporanee dell’autore: la forma è sostanza, e senza dimenticare che vere protagoniste del Viaggio in Italia sono le pietre, rosate, tufacee, cristalline illuminate dai luoghi e sostanza degli stessi. Luoghi, come Montefalco, in cui oramai è palpabile il declino del cristianesimo e l’avanzata di nuovi culti:
“La via centrale e le vie limitrofe sono tutte un’osteria, una vineria, un bistrot, con un certo charme di festa dionisiaca permanente. E questo è il punto. Il cristianesimo anche qui sta finendo, e il nuovo culto è il culto di Dioniso (a cui si associa Afrodite)”.
Il pensiero corre immediatamente al “popolo ebbro”, ai “costumi sommersi da frastuoni oscuri” dell’Empedocle di Hölderlin e l’avventura fra le pieghe di questo splendido libro volge a conclusione. Ora tocca al lettore seguire con le proprie inclinazioni il variopinto brulichio degli infiniti scenari immaginati dal Viaggio in Italia di Flavio Cuniberto.
Dott. Alessandro Gatti