Il Messiah di Haendel è un presepe che canta in inglese. E noi lo vogliamo così, come lo hanno presentato i cantori dell’Accademia degli Unisoni, sobrio, sintetico, prosciugato degli inutili e inattuali recitativi. E soprattutto ridotto a dimensioni fruibili dal moderno ascolto.
Tutti abbiamo davanti agli occhi l’espressione di sollievo dello spettatore medio che alla fine dell’Alleluja pensa di applaudire e tornare a casa. Poi, quando scopre che c’è ancora una terza parte, interminabile, che annovera arie del tipo “O morte, dove è il tuo pungiglione”, la soddisfazione si trasforma in nervosismo, indi in rassegnazione: si deve stare seduti altri quaranta minuti ad ascoltare le esternazioni della Bibbia di re Giacomo.
Guardate invece come sono più pratici e più malleabili gli italiani. Uno come Vivaldi ti sforna un Magnificat che in meno di venti minuti sfodera cinque arie e altrettanti cori, con un conciliante Gloria Patri finale che è un portento di saggezza e di misura.
Nella sua consolidata serietà Leonardo Lollini, ieri sera, ha portato il suo coro degli Unisoni nella sala dei Notari per un concerto che è stato un prodigio di godibilità e di fervore natalizio. Musiche appropriate, ben eseguite, e un coro che canta di raffinato e sa anche modulare con consumata maestria delle “messe di voce” che sono un raro frutto di studio e di maturazione.
Utilizzando una base strumentale di quattro archi e organo (Obori, Bacchiorri, Battistini, Vallini e Francesco Ragni) e le voci soliste di Letizia Pellegrino, Francesca Lisetto, Francesco Isidori Gioia e Daniel Bastos, brasiliano di Brasilia, Lollini ha ottenuto il massimo con il minimo impiego di mezzi. Segno evidente di una professionalità che è anche dedizione a amore per quello che fa.
Del Magnificat vivaldiano, un RV 611, si può dire solo che è consono a un prete musicista che non diceva messa, perché l’asma gli impediva di stare all’altare, in piedi al freddo. Cosa che poi non gli nuoceva quando passava ore intere sul palcoscenico del teatro a dirigere cantanti e a suonare il violino negli intervalli. Questa pagina mariana è graffiante, pervasa di brividi, ma percorsa al suo interno da un sano fervore, un senso di umanità condivisa che unisce tutti davanti al mistero dell’Incarnazione.
Più complessa la faccenda di Haendel. Il grande oratorio che gli inglesi considerano, e giustamente, una musica nazionale, nacque in un stato di esaltazione che portò il musicista sassone a fondere le memorie ataviche luterane, con le esperienze sonora italiana, fondendole nel crogiuolo di un pragmatismo britannico a prova di sensibilità. Giustamente il polemista rumeno Cioran, a proposito, sosteneva che quando scrisse il suo capolavoro Handel visse “come trasportato in cielo”. Eppure l’impronta di un “vissuto” che non è divino, ma terreno si avverte proprio in quella scheggia di memoria che è la pastorale napoletana, una sorta di arcaico revival di “Quando nascette Ninno” che Handel ascoltò sicuramente dagli zampognari ciociari presenti nel Natale romano. Nel grande affresco inglese volle farne oggetto di nostalgico ricordo, confermando che il presepe, se vogliamo, può vivere in ognuno di noi, ieri come oggi.
Alla fine del concerto, sobrio anche nella durata, si festeggiano Lollini e i bravi cantori, ottenendo ben due bis. Il primo è il ricordato Alleluja, ma nessuno sente il desiderio di alzarsi e uscire. Meno di tutti l’assessore Teresa Severini, discreta presenza nella serata. Al secondo bis si chiude la serata che è stata godibile in ogni suo momento.
Stefano Ragni