Il pubblico si aspetterà di vedere il film che non vedrà
Questa è la prima dichiarazione di intenti del regista Sandro Mabellini per la sua versione teatrale di “Trainspotting”, andata in scena Sabato 27 Ottobre, alla Sala Cutu di Perugia e fortemente voluta dal Presidente e Fondatore del Teatro di Sacco, Roberto Biselli.
In effetti, i richiami al romanzo dello scrittore e drammaturgo scozzese Irvine Welsh superano quelli della versione cinematografica di Danny Boyle, Anche i temi musicali, presenti all’ interno dello spettacolo (tra questi anche il simpatico adattamento di “Felicità” di Albano e Romina Power), provenienti dalla riproduzione di un vecchio mangianastri anni ‘ 80, appaiono per nulla condizionati dall’estetica del film.
Come racconta lo stesso Mabellini in una recente intervista “andando alla ricerca di possibili versioni teatrali di Trainspotting in Internet, mi sono imbattuto in quella creato per quattro attori dal regista e drammaturgo libanese naturalizzato canadese, WajdiMouawad. Tramite vari contatti, sono riuscito ad avere da lui la sceneggiatura scritta in “quebec-ese “ che ho fatto successivamente tradurre in italiano da un giovane autore molto apprezzato , Emanuele Aldrovandi. Il lavoro drammaturgico è stato creato grazie agli attori che hanno cercato di riprodurre ,nel modo più fedele possibile, il vero spirito del libro”.
Il risultato che ne deriva è un lavoro di forte impatto emozionale, a tratti anche divertente: ci accolgono 4 giovani semi-nudi, 3 uomini ed 1 donna, i cui corpi emergono da un contesto buio ed underground.
Su una parete, sono scritti dei nomi: Mark Renton, Sick boy, Allison, Tommy, Francis, Spud ed altri.
Sono i nomi dei protagonisti i quali passano gran parte delle loro giornate in una stazione a guardare treni su cui, probabilmente, non saliranno mai. Per scelta? Forse.
Hanno deciso di essere fuori dalle regole e dai condizionamenti di un mercato che li vorrebbe schiavi di un lavoro, di una carriera, di un mutuo per l’acquisto di una casa, di bollette da pagare, di quella che loro sentono essere una “non-vita”.
Drogarsi, per loro, significa il rifiuto di qualsiasi aspetto della vita sociale e una fuga dalla “normalità” che li opprime in nome di una libertà che non è necessariamente auto-lesionismo, ma raggiungimento del piacere momentaneo.
Ecco, allora, che la tenda da campeggio messa su un punto della scena, rappresenta un’enorme bolla in cui chiudersi dentro, isolarsi dal resto del mondo, ma che poi si trasformerà, all’occorrenza, in una bara per il funerale del povero Tommy.
Gli sgabelli diventano delle toiletbowls su cui defecare quando si è in astinenza, le lampade, accese a turno dai protagonisti, servono a toglierli dall’invisibilità nella quale sono costretti a vivere ed i loro volti, illuminati per brevi istanti, sembrano urlarci contro:
“NOI ESISTIAMO…SIAMO FATTI DI SANGUE , PISCIO E MERDA, PROPRIO COME VOI”.
La forza (o la debolezza) dei personaggi si manifesta attraverso un linguaggio scurrile, ma che non infastidisce lo spettatore anzi, serve a sottolineare il carattere e la pesantezza di una vita vissuta da border-liners.
Le tante storie dei protagonisti sono accumunate da un sentire comune, collettivo.
La loro emarginazione è l’emarginazione che i tossici subiscono dagli altri, da coloro che si sono uniformati al sistema, da chi vorrebbe renderli invisibili, appunto.
Bravissimi gli attori.
Dal Mark Renton italiano, Michele Di Giacomo che per tutta la durata dello spettacolo ripete insistentemente lo stesso gesto di passarsi la mano tra i capelli e mettersi l’altra sotto l’ascella, nel tentativo di auto-calmarsi e mettere un freno alle mille nevrosi del suo personaggio, a Riccardo Festa che addirittura ci offre una carrellata di 3 personaggi, Spud, Sick boy e Tommy, dalla giovane Valentina Cardinali, l’unica presenza femminile in scena, che propone una Allison rassegnata e così tanto annebbiata dagli stupefacenti da non accorgersi della morte della figlioletta, Dawn, a Marco Bellocchio che interpreta l’alcolizzato e brutale Francis Begbiecon grande enfasi rappresentativa.
Lo spettatore percepisce e vede tutto: le crisi di astinenza, i dolori muscolari, il vomito, la dissenteria, la sudorazione, gli occhi allampanati degli attori.
Il suo è un vero e proprio trip nel mondo dei protagonisti: ne sente il disperato grido nichilista, comprende la richiesta incessante di un’alternativa che non è possibile trovare in questo vuoto esistenziale dell’anima.
Alla fine, il pubblico non può non venire colto dalla consapevolezza che in fondo tutti , in certi momenti della propria esistenza, siamo rimasti incollati ad un sedile della stazione dei treni, immobili, passivi, rassicurati da una sorta di non- movimento mentre il mondo intorno faceva a corsa per accaparrarsi l’ultimo modello di I-Phone o prenotava la Chiesa per il matrimonio.
Alcuni di noi, poi ,sono riusciti a mettere fine a questa sorta di staticità emotiva, di auto-ipnosi protettiva per realizzare che può e deve esistere un’alternativa valida a questo apparente paradiso artificiale in cui tutto è assolutamente alterato. Questione di fortuna? Di destino? Di scelta più o meno consapevole?
Oppure semplicemente, come fanno gli animali, si è fiutato il pericolo e deciso di prendere un treno che portasse in salvo.
Ce ne sono molti, ancora, alla stazione, rimasti lì a guardare il passaggio di un treno che forse non prenderanno mai. O forse sì.