di Stefano Ragni – Apertura d’anno nel segno della complessità per gli Amici della Musica di Perugia, che riemergono dal letargo natalizio con una proposta assolutamente interessante. Un quintetto d’archi in formazione stabile, anzi, forse l’unico della specie.
Componenti tedeschi, con due viole e con le idee molto chiare su coesione e repertorio. Attivi dal 2009, l’anno di Mendelssohn, il Bartholdy resiste alle incertezze di un repertorio non vasto, non conosciuto e non esplorato.
Alla luce del concerto di ieri pomeriggio non possiamo che congratularci per la persistenza e per la qualità degli obbiettivi raggiunti.
Anche perché, giustamente, quando i pezzi non esistono, si possono commissionare, creare e promuovere. E’ il caso della nuova partitura, del 2011, che i Bartholdy hanno posto al centro del concerto che si è svolto in un sala dei Notari gremita al di là di ogni previsione. La raggiunta consapevolezza di un pubblico disponibile a frequentare sponde inconsuete del camerismo depone a favore di maturazione e di rielaborazione di contenuti che vengono dalla contemporaneità, anche se sta diventando sempre più difficile essere “moderni”.
Il pezzo di Robert Krampe, classe 1980, berlinese, non và a di là di quel “berghismo” che sembra essere un approdo sicuro per chi vuole scrivere senza incappare nei fondali melmosi dello sperimentalismo. Krampe cita addirittura il Mahler della decima Sinfonia, ma lo fa con estrema sottigliezza, confezionando un trittico che sin dalla sua enunciazione è risultato carico di tensione sensibile. Tra le pagine si può cogliere l’eco di una storia, quella del distacco di Alma Mahler dall’impegnatissimo e problematico marito e dei richiami quasi disperati di un uomo che sentiva sfaldarsi anche la certezza della sua musica. Momenti molto belli nella partitura di Kampe, soprattutto nella pagina centrale, prima che i richiami mahleriani divengano la parte più sostanziale del brano. Incombono, nella fasi finali, un senso di pesantezza e di imminente catastrofe, resa in maniera impressionante dalla esecuzione dei Bartholdy, partecipi in suono, in densità e in smagliante resa strumentale.
Con la gioia di aver apprezzato una pagina di recente produzione, cosa che sta diventando sempre più sporadica, non possiamo che essere soddisfatti anche dle resto del concerto.
Apertura col Mozart K 516, anno 1787. La scelta di un sol minore, tonalità patetica per eccellenza, la distribuzione sulle profonde risonanze ombrose delle due viole, rende questa pagina piena di fascino e di coinvolgente risonanza. Ci sono molte inquietudini nei quattro movimenti, e c’è una incalzante richiesta di commozione nell’Adagio centrale. Quasi come se Mozart volesse schivare l’anticlimax, l’ultimo tempo si apre con un ulteriore movimento lento, una trama setosa che sembra voler coprire, con un velo purpureo, l’immanenza di un evento tragico che la Giga conclusiva non riesce a esorcizzare. Di lì a poco infatti sarebbe morto Leopold, il granitico genitore, che si spegneva dopo una lunga malattia.
Ripresentandosi dopo l’intervallo per suonare il Quintetto op. 87 di Mendelssoh i cinque giovani tedeschi si sono scambiati i posti, violini e viole, invertendo i leggii. Indice di democrazia, ma anche di funzionalità cameristica al massimo livello esponenziale. Inutile chiedersi se il suono è diverso, perché in Mozart come in Mendelssohn era comunque molto bello, pieno di polpa e di risorse timbriche.
Apertura altamente energetica nello spunto iniziale del quintetto mendelssohniano, e tavolozza di atteggiamenti abituali nei romamtici “gotici” in una sorta di marca funebre che costituisce il movimento lento. Chiusura tripudiante, con qualche sovrapposizione di contrappunto e sonorità quasi eroiche nel finale.
Da ovazione. Cosa non prevedibile in una purissima forma di camerismo come quella proposto dai Bartholdy. Pubblico che applaude con convinzione.
C’è anche spazio per un bis, un altro Mozart. Si vorrebbe riascoltarli per godere ancora di questa densità acustica piena di colore e di vibrazione.