di Stefano Ragni
Lo chiamano castello di pendio, ma provate voi ad arrampicarvi con l’automobile mentre piove e sentirsi scivolare sul tappeto di foglie. I cartelli indicano sempre più in alto e la strada si restringe fino a diventare una pista.
Arrivati alle mura castellane niente, nemmeno una luce fioca, ma solo il vento sferzante. Dal basso le luci della pianura spoletana esalano quasi un sospiro di solidarietà.
Ma alla fine domenica sera siamo arrivati al castello di Poreta, 470 metri che, in quelle condizioni sembrano cifre alpine: ma a chi sarà venuta l’idea di portare il pianoforte di Egidio Flamini fin nella chiesa di Santa Maria della Misericordia?
Eppure la bella aula, ornata di affreschi Cinquecenteschi, è piena di Flamini-fans, un bel gruppetto che si spartisce ogni sedile possibile.
Domenica sera, il 12 novembre, nell’infuriare di una coda di temporale, Egidio ha rinnovato la magia della sua tastiera fragile, trepida, mormorante.
Lo ha fatto realizzando un vero percorso drammaturgico con testi e musiche di sua nuova produzione, assecondato da una voce recitante, quella di Graziano Sirci, che non è seconda a nessuno in fatto di raffinatezza.
Otto erano gli scalini di questa recita concertante, con alternanza di pianoforte e voce senza soluzione di continuità: perché con Flamini si tratta sempre di percorsi dell’anima, e lo spirito deve alitare libero e posarsi dove crede.
E’ questo il messaggio che recepiscono gli ascoltatori, in meditazione fin dalle prime note, respiro contro respiro, ammaliati da una catarsi che viene continuamente rinviata, ma che, poi, non ci sarà. Perché in Flamini tutto è circolare e alla fine il suono ritorna da dove è scaturito, nell’interiorità di un’anima che ancora contempla il mondo sotto le luci dell’albero di Natale.
Ha aperto il primo pezzo suonato e recitato: “Alpha, la prima carezza”, con sottotitolo ”lectio magistralis”. E la musica sussurra: la tenerezza, “espressa attraverso il gesto che fra tutti è il più intimo, fragile, sensibile e delicato; una carezza”.
Il secondo brano, “il rito della vita”, suona la musica di un alchimista che non faceva altro che unire delle piccole linee con degli altrettanto piccoli cerchi.
Il terzo è come fosse Chopin, che sembra voler dire: “Dopo aver suonato una immensa quantità di note, è la semplicità che esce fuori con tutto il suo fascino. L’ultima cosa è la semplicità”.
Fissato su questo registro di consonanze immobili che si avvolgono su se stesse il percorso sonoro di Flamini, come è sempre avvenuto nelle sue cose, procede a cerchi avvolgenti, a ondate pacifiche, ripetendo stilemi non ignari dei ritmi della musica pop, ma illuminati dalla grande tradizione classica.
E’ così per “Controluce”, per “Orizzonti perduti”, da Battiato, per “Fogli in bianco”, per “Omega, l’ultima carezza, il dialogo”, ove “l’amore non fa altro che cambiare forma”.
Chiusura con “Lieve, senti che bel vento”, da Vasco Rossi. Anche lui nel bagaglio magico di Egidio, ma con una banalità testuale che ci riporta nella concretezza delle cose. Anche perché nella chiesa si sta diffondendo un aroma di cucina sopraffina.
Gli ospiti infatti hanno prenotato oltre il concerto, anche una cena, servita in una delle sale del castello.
Poreta, in effetti oggi è un bel ristorante con vista invidiabile sul mare della pianura umbra.
Devastato dai terremoti del 1703 e del 1781, l’abitato, che aveva resistito ai passaggi di tutte le bande armate che dal Rinascimento in poi vi si erano avventate per depredarlo, è stato acquistato nel 1867 dalla famiglia Pranzetti, che lo ha messo opportunamente a regime, con restauri e destinazione agrituristica.
E questo è un bene per la conservazione di manufatti preziosi altrimenti destinati alla rovina.