Femmine contro maschi non è solo un film, la famosa commedia di Fausto Brizzi del 2011, ma anche una tragica realtà.
Strano Paese l’Italia. Ogni evento, dalla politica alla violenza di genere, viene affrontato in maniera diversa. O come sfida calcistica, con la rimozione dalla memoria, o peggio ancora con la negazione dei fatti. Tanto che andare oltre le tifoserie di genere e i malintesi del linguaggio, sembra una chimera.
Prendiamo ad esempio uno degli ultimi episodi di cronaca, la “Strage di Latina”, la storia di Luigi Capasso, il carabiniere che ha tentato di uccidere la moglie Antonietta, sopravvissuta, ha sparato alle figlie e si è suicidato. Sorprende la risposta dei colleghi del suicida: «Sembrava normale». L’inchiesta aperta successivamente sta mettendo in luce che il cosiddetto “raptus” fosse, in realtà, un atto studiato a tavolino. Un dramma per certi versi annunciato. Tra i segni premonitori emerge una visita psicoattitudinale superata. Capasso verrà dichiarato idoneo al servizio dopo un esposto di Antonietta presentato alla Polizia e un buon numero di appelli andati a vuoto.
Che Antonietta e le figlie temessero Luigi era chiaro ai più. Perciò quel “sembrava normale” lascia un minaccioso Why? appeso al cielo. Che non sia l’ennesima violenza di genere?
E così torna alla mente mente il capolavoro di Ettore Scola del 1977, “Una giornata particolare”. La storia di Antonietta e Gabriele (interpretati da Sophia Loren e Marcello Mastroianni) entrambi esclusi alla parata in onore di Adolf Hitler a Roma, che si conoscono il 6 maggio 1938 lei casalinga incolta e madre di sei figli, relegata dal marito in casa a lucidare gli stivali del duce, lui ex radiocronista disoccupato perché omosessuale. L’esclusione alla parata non era altro che una violenza di genere, di Antonietta, in quanto donna, di Gabriele poiché omosessuale. E’ tutto cosi assurdo, ancora oggi.
Vero, “la vita è fatta di momenti diversi” e “piangere si può fare da soli, ma ridere bisogna farlo in due”. Ogni qualvolta si presenta un why e l’esigenza di capire e sdrammatizzare, scrivo al mio amico Alberto, il quale al contrario non sembra normale, soprattutto perché mi sopporta da quattro lunghi anni e non mi ha ancora eliminato fisicamente. E così iniziano le nostre conversazioni surreali.
Come quella che segue, che in qualche modo vuol fare un minimo di chiarezza fra una cultura di genere femminile e quella maschile.
Alberto, chi deve pagare il conto al ristorante alla prima uscita, l’uomo o la donna?
Bella domanda! Bene, partendo dall’idea di apprezzare l’ospitalità di chi ci ha invitato, sarebbe buona prassi accettare l’invito fino in fondo, lasciando all’ospite l’onore anche di pagare. Naturalmente spesso se ne fa una questione emotiva come se non pagare fosse una perdita di dignità e diventa un senso di colpa non riconosciuto. Il denaro vale quello che vale e se una persona decide di invitare è bene che ne possa godere anche l’onore del saldo. Da un punto di vista più strettamente emotivo, spesso si innescano dinamismi competitivi dove troviamo che essere quello che paga ci rende “brillanti” mentre l’altro si sente sminuito. Nelle convenzioni sociali invece, una donna, se accetta di essere ospite accetta anche una pessima abitudine/convenzione di divenire “in debito” con chi l’ha invitata. Siamo davanti ad un ricatto affettivo bello e buono, basato sulla consuetudine comunemente accettata secondo la quale se accetti la cena poi devi anche concedere qualcos’altro. Spesso, perciò, troviamo persone che rifiutano l’invito proprio per questo “implicito”. In qualche maniera nel concetto di invito c’è annesso il concetto di accettazione estesa di consuetudini (stereotipi), piuttosto che di una diretta e semplice disponibilità a socializzare o conoscersi rispettosamente, i cui limiti al tipo di socializzazione non sono assolutamente scontati o preconfezionati. Io, personalmente, lascio pagare sempre le donne, poiché adoro farle sentire importanti, autonome e nocchiere del proprio veliero.
Alberto chi deve pagare il conto all’ultima uscita, se l’amore non r-esiste?
Beh… Questa domanda ha una risposta difficile. Verrebbe da rispondere ‘alla romana’ ma sarebbe troppo facile. Credo invece si possa riflettere sul senso della ‘fine’ ed avere un ultimo gesto di gentilezza reciproco, pagandosi vicendevolmente qualcosa di particolare e buono in modo di chiudere con un simbolo di affetto. Naturalmente sarà possibile quando non sono attivi rancori e vendette. Direte voi che allora non ci sarà quasi mai l’opportunità di una gentilezza reciproca. Mah… Spesso mi viene il pensiero di urlare: “ma non impareremo mai a rispettarci? “…e mi assale un certo sconforto pensando che nella stragrandissima parte la coppia è un territorio del possesso e non della condivisione o della complicità. L’amore in occidente è la moneta dove si contratta un possedimento, un adeguamento agli stereotipi sociali, un modo di non sentirsi diversi e strani… In molte civiltà non occidentali e analogamente sofisticate a livello culturale vi sono sistemi e modi di vivere la relazione amorosa non basati sul mercanteggiare il territorio sentimentale. Non citerò i nomi delle popolazioni per non fare lezione e soprattutto per non accendere un dibattito antropologico.
Alberto, è in corso una partita, femmine contro maschi e viceversa? Chi otterrà la Coppa Italia?
Già hai detto bene; una partita. Questo termine calza a pennello perché culturalmente l’Italia prende tutto su un livello di competizione. Ma come ci si può aspettare dalle competizioni non esce nulla di buono in quanto se uno vince, per forza l’altro perde! In altre parole avremmo sempre il 50% delle persone frustrate, insomma uno stallo. …Ma se fosse solo uno stallo sarebbe una forma di equilibrio, invece abbiamo il nichilismo della vita sentimentale. Quando si vivono cocenti delusioni sentimentali, la persona perde la fiducia e inizia a chiudersi in una sofferenza sorda e implacabile. Io non capisco tanti cianciatori che continuano a dirci che la competizione è positiva!
Oggigiorno tutti, anche moltissime persone sposate, sono profondamente deluse dalla vita sentimentale, anche se non lo ammettono apertamente.
La Coppa Italia non è forse un gelato?
Sì, Alberto, la Coppa Italia è un gelato al veleno. E non ci sono né vincitori né vinti, a meno che non riusciremo ad andare oltre una competizione sterile e riconoscere i reciproci condizionamenti culturali.
E’ un passaggio obbligato per giungere infine ad un equilibrio necessario. E questa è la vera sfida. E sarà una giornata particolare quella in cui donne ed uomini riusciranno a capirsi come hanno fatto Antonietta e Gabriele nel capolavoro di Ettore Scola.
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Alberto Bonizzato, classe 1964 è docente e formatore nell’ambito della comunicazione e delle relazioni. Nei suoi libri, Abbasso Freud I rapporti umani e le risposte che vorrei, scritto insieme a Laura De Blasi, attrice professionista diplomatasi al Teatro Stabile di Genova ed Emozioni e Felicità, guida il lettore alla comprensione del mondo emotivo, in modo da trovare risposte ai comportamenti che governano le relazioni umane, e le risposte sono necessarie, o la partita la perderemo tutti.
Cristiana Dominici