di Francesco Castellini
In quest’epoca di pazzi, dove, come canta Battiato, ci mancavano solo gli idioti dell’orrore, sentir parlare di filosofia, di senso della vita, dei sogni che contribuiscono a scrivere la storia nobile degli uomini, è davvero cosa rara e bella.
In una Sala dei Notari silenziosa e attenta, affollata da un pubblico partecipe e curioso, Marcello Veneziani, ospite dell’associazione culturale “Luigi Bonazzi” di Perugia, ha intrattenuto sul tema “I miti e il nostro presente”, opportunamente stimolato dalle domande del professor Lino Conti e dell’artista Franco Venanti.
Veneziani, giornalista e scrittore, in questo percorso disseminato di spunti e di dotte citazioni, ha più volte attinto al suo ultimo libro “Alla luce del mito. Guardare il mondo con altri occhi” – (Marsilio, pagine 176, euro 16,50).
Ne è scaturita una serata piacevole, utile, per certi versi necessaria.
In questa umanità malata di globalizzazione e di automazione, che tutto appiattisce al tempo presente e che sempre meno lascia spazio alla fantasia, alla progettazione, alla creatività e alla favola, alla fine si è capito bene come poi tutto possa ridursi ad una sola e unica spaccatura: l’umanità divisa fra coloro che continuano a porsi le domande fondamentali della vita, e dall’altra quelli che dalla vita si fanno travolgere come soggetti passivi portati via da un fiume in piena, arrabattandosi ad assecondare la corrente, ma privandosi del fatto speciale di continuare ad essere creature pensanti.
E dunque proverbiali paiono, nella loro perentorietà, le formulazioni:
“Il destino è l’albero della necessità, il mito è la sua fioritura”. “Entrare nel mito significa uscire dalla mortalità”.
“Nel mito facciamo visita agli Dei”.
“Uscire dal mito è vivere spenti”.
Veneziani è stato ferocemente critico nel fotografare la realtà in cui viviamo.
“La nostra epoca è contrassegnata da fenomeni di seconda mitologia. Siamo preda di falsi miti, quali il successo economico, la forma fisica, il sesso ridotto a libido, l’astrologia, l’occultismo, il cinema, la pubblicità, l’ideale di purezza e genuinità (nei rapporti sociali, nell’alimentazione, nell’ambiente)”.
“Il mondo sono io, e il selfie lo certifica”.
Ma di mito abbiamo bisogno, perché il mito non è solo illusione; “il mito – scrive l’autore – è racconto, e quel racconto è spesso l’immagine riflessa della verità”.
Il mito “è l’infanzia che resta da adulti, ha il cuore puerile ma coglie l’intelligenza del mondo”. Il mito è simbolo, trasfigurazione e metafora; un tempo c’erano i miti di fondazione, spesso espressi in forma poetica come l’“Eneide”, che addirittura è un prequel della fondazione di Roma, o la “Chanson de Roland”: perfino l’Europa, diventata così ragionieristica nasce da un mito.
I malesseri di oggi hanno la stessa matrice “la pretesa di calcare il cielo con i piedi e di camminare con la testa. Così i nostri dei e i nostri miti sono pedestri, all’altezza delle nostre suole, o al più dell’inguine, e la nostra vita terrena si perde nel cervello, in quella tirannia dell’immaginazione sulla realtà, del cervello sulla vita concreta”.
Una terribile diagnosi che però non esclude una cura: “La via d’uscita, facile a dirsi e ardua a realizzarsi, è restituire i sogni alla notte e la veglia al giorno, ridare il cielo agli dei e la terra agli uomini, ripristinando il duplice bisogno di miti e di realtà che ci rende uomini; collocati però nel loro giusto topos e kairos, mai scambiandoli di posto e di momento”.