Narcotici Anonimi: La verità cambia sempre

Dal tunnel della dipendenza alla rinascita, una storia vera

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Narcotici Anonimi una storia vera

LA VERITA’ CAMBIA SEMPRE

Dal tunnel della dipendenza alla rinascita, una storia vera

 

C’è la verità processuale, la verità del cuore, quella dell’umiltà che è il contrario di quella dell’Ego. L’Umiltà è un grande dono dello spirito. Ti permette di sentire la verità del cuore, che comprende tutti e tutto, non solo la mia verità mentale, dettata dai bisogni impellenti, che non sanno tacere e non sanno aspettare i bisogni di tutti.

La dipendenza ha la verità unica del bisogno impellente, primario, di usare. Tutto il resto è solo la sua conseguenza.

Quando si cade nel tunnel della dipendenza all’inizio si è inconsapevoli, poi ad un certo punto ti rendi conto di non essere più libero, ma schiavo. Allora il ritorno alla luce può essere possibile.

Una volta divenuta consapevole della mia malattia – perché la dipendenza è una malattia e non un vizio – mi sono chiesta mille e mille volte, perché io fossi incapace di fermarmi dopo aver assunto anche una piccola dose di sostanza, fosse essa un tiro di cannabis o un semplice bicchiere di vino.

Tante persone possono fermarsi, io non potevo… e non posso.

Ecco la mia storia.

Mi chiamo Daniela, ho 50 anni e sono una dipendente.

Da piccola ho fatto l’esperienza dell’abbandono. Ero insicura e timida. Nonostante questo, posso dire di aver avuto un’infanzia serena, con tanto di amiche del cuore e comitiva del muretto. Vivevo in una casa grande, piena di luce, con mia madre, mio fratello, mia sorella e un cane che sapeva attraversare la strada da solo e adorava masticare il chewingum.

I miei si sono separati quando avevo 8 anni. Mia madre era affettuosa e sempre presente per qualsiasi cosa. Mia sorella, a 14 anni, andò a vivere da mio padre, perché aveva un rapporto conflittuale con mia madre, si sentiva sempre la meno amata.

Per lei era così, per me no. Io mi sentivo amata e vedevo i sacrifici che la mamma faceva per mandare avanti la casa e pagare l’affitto. Lavorava part-time con un’avvocatessa molto famosa di Roma.

Mia madre era insoddisfatta del suo lavoro, quando tornava a casa, si sfogava, dicendo che l’avvocatessa la trattava male, la sminuiva e la umiliava davanti agli altri. Però lei teneva duro, perché quei soldi servivano. Era in gamba e non rispondeva mai alle provocazioni. Era una vera signora, mia madre, dall’animo gentile e solare.

Alle medie mi mandarono il pomeriggio a bottega da un maestro di ceramica, a cui mio padre pagava una retta per il mio apprendistato. Creare degli oggetti mi appassionava, così alle superiori decisi di iscrivermi all’Istituto d’Arte. Mio padre non era d’accordo e si oppose con tutte le sue forze: voleva che io facessi il Classico. Per punizione, mi tolse il motorino che mi aveva regalato per il mio compleanno.

Dal mio punto di vista, lui non si era mai interessato dei miei interessi e quindi io mi imposi di non sottostare mai alla sua autorità… non ci parlammo per mesi. Questa era mia “verità orgogliosa”. La verità che capisco oggi è che mi vedeva fragile e mi voleva preservare dai pericoli, dandomi una formazione più completa.

Anche alle superiori l’esperienza fu positiva. Andavo a scuola in autobus. L’Istituto d’Arte era bellissimo, pieno di studenti interessanti e con dei laboratori magnifici. La mia classe era unita e ci sostenevamo sempre a vicenda. Il pomeriggio e il sabato sera facevo la baby sitter. Con i soldi guadagnati, dopo qualche mese, comprai un rottame di motorino a 150mila lire da un mio compagno. Un vero affare. Con l’aiuto di mio fratello lo rimisi a nuovo e, finalmente, andai a scuola con il mio mezzo di trasporto.

Avevo poi un gruppo di amici molto affiatato. Ci vedevamo all’Eur. Organizzavamo sempre qualcosa il sabato: un pic-nic, una gita. L’importante era stare insieme. La vita era bella, condividevamo tutto. Avevamo addirittura una cassa comune, chi aveva di più, metteva di più… ma, di solito, nessuno di noi aveva mai una lira e così si stava a chiacchierare, le chiacchiere non costavano nulla…

Il mio giro di amici era sano. Girava qualche canna ogni tanto, io, però, non fumavo.

Intanto, la mia autonomia cresceva. Facevo tante cose, tra lavori vari, studio e uscite con gli amici… Fumai la mia prima canna in V superiore… Non mi fece nulla e, quindi, pensai che farsi le canne fosse una finzione… però poi rifumai ancora.

Forse, la verità è che la prima dose aveva richiamato la seconda?

Dopo pochi giorni, comprai il fumo a scuola, perché desideravo fumare quando volevo… Forse la verità era che la mia perdita di controllo, che oggi riconosco come uno dei sintomi della dipendenza, che è una malattia continua e progressiva per tutti, ma non con uguale intensità per tutti…

Per me, questo processo era più veloce che per gli altri?

Eppure pensavo che la vita fosse meravigliosa e che ti potesse offrire tutto ciò che desideravi.

Di fatto, studiavo e lavoravo in laboratori di ceramiche, in aggiunta facevo molte altre cose.

Conseguita la Maturità, andai all’Accademia di Belle Arti. Durante il primo e il secondo anno, a volte, la mattina – se non andavo a lezione – compravo una bottiglia di vino. La condividevo con due mie amiche. Ci ubriacavamo insieme sulle scalette dietro l’Accademia. Poi canne, sempre.

La verità era che la mia depressione cresceva, così come la mia perdita di controllo sull’uso e sulla vita. La mia verità era che ero depressa perché per me, gli inverni a Roma erano troppo lunghi e freddi, troppe le giornate di pioggia e non avevo trovato amici interessanti in Accademia.

Non mi rendevo conto che il mio carattere stava cambiando. Stavo diventando introversa e critica verso gli altri, mi stavo isolando…

L’isolamento è un altro sintomo della dipendenza. Nonostante questo, venni scelta per lavorare presso un importante studio di architettura in via Veneto. Il lavoro mi piaceva tantissimo ed ero apprezzata.

Al terzo anno di Accademia facevo uso di eroina regolarmente nei fine settimana…

L’eroina l’avevo provata una volta, forse due anni prima. Vomitai tutto il giorno.

Come mai l’avevo riprovata, nonostante il brutto effetto della prima volta? La verità è che, come dimostrano molti studi, a livello chimico, una volta inserita la sostanza – per un dipendente che non la può assimilare e scomporre in modo corretto e quindi non riesce ad eliminarla completamente – il fisico ne deposita in modo anomalo una parte, nel cervello. Dal corpo partono, quindi, impulsi e richieste di sostanza, in tutte le forme possibili, come pensieri, stati emotivi e richiami fisici. Il procedimento è il medesimo di ogni richiesta primaria da parte del corpo umano, come la fame, la sete, il sesso. Questo non lo sapevo ancora…

Fatto sta che sono riuscita a laurearmi, con fatica, ma ci sono riuscita.

A quel punto, la ricerca del lavoro, per me, diventò un’odissea. Non trovavo un impiego, ma, in verità, non mi andava bene niente e non avevo la forza e la voglia di lavorare… tutto mi sembrava inutile.

Avevo un ragazzo, un chitarrista. Per due anni la nostra vita fu fatta di concerti, musica, feste. Tutti i venerdì si usava, finalmente…

L’ingranaggio si ruppe quando mia sorella, un giorno, volendomi fare una sorpresa, ebbe la felice idea di mettersi a pulire la mia stanza… cosa, questa, che io tralasciavo di fare spesso. Nel caos trovò tre chili di fumo che “reggevo”, candidamente, in camera mia al mio ragazzo. Mi sorella allertò mio padre che venne a prendere il “tesoro pericoloso”, per restituirlo allo spacciatore. Mio padre, ingegnere e persona di prestigio, andò in giro per Roma con una borsa con dentro tre chili di fumo per tutelarmi, si prese cura di me e mi portò a Ferrara per qualche mese, mi pagò una stanza con delle studentesse… feci un corso di disegno dal vero.

Non fumavo più e non usavo… fu tanto lo shock, che non usai per qualche mese. Poi tornai a Roma e feci un corso regionale per diventare orafo. Iniziai a lavorare. Rividi il mio ragazzo che mi mancava tanto… ci vedevamo di meno, cercavo di non usare…

Oggi so che la verità di quella forte attrazione era il richiamo dell’uso, travestito da amore.

Le malattie di due esseri umani si riconoscono e si parlano tra loro.

Passarono altri anni. Ero stanca, il lunedì era un giorno tremendo… avevo dinanzi a me la prospettiva di un’intera settimana in cui avrei dovuto lavorare, anche se non ce la facevo, anche se tutti i miei pensieri erano concentrati sull’uso… Il mio cervello era impegnato in una cosa sola: trovare modi e mezzi per averne di più.

Lo seppero pure i miei, mio padre mi disse di non preoccuparmi e che mi avrebbe aiutato, avremmo trovato la strada giusta. Dentro di me sapevo che non c’era niente da fare. Tra Sert, mezze comunità, psicologi, la mia vita era sempre più ingovernabile.

L’uso era la mia vita.

Questa era la mia realtà, quando arrivai ai gruppi di Narcotici anonimi.

Non fu esattamente amore a prima vista. All’inizio frequentai per qualche settimana. Nel frattempo scalavo il metadone e non usavo… Poi pensai che potevo pure saltare qualche riunione… passarono così altri 10 anni… Magari potevo non usare eroina, ma spostavo il mio uso su altre sostanze… le cambiavo, le aggiungevo, le toglievo. Ogni tanto rifrequentavo i gruppi N.A… Ma ricadevo. La realtà è che non riuscivo ad avere il desiderio di smettere a tempo pieno. Questo desiderio a volte andava, a volte tornava.

Questo stato di cose generava in me un conflitto perenne. Pensavo di poter gestire il mio uso, ma in realtà era lui che gestiva tutta la mia vita, assorbendo tutte le mie energie.

Stanca di tutto questo, chiesi aiuto a mia madre. Lei capì che era necessario che io ricorressi ad una struttura protetta, perché la mia volontà, da sola, nulla poteva contro il problema che mi dominava. Andai, quindi, in un centro di trattamento dei 12 Passi, il programma sviluppato da Alcolisti Anonimi e poi adottato da Narcotici Anonimi. Lì durai circa un mese. Un pomeriggio, in uscita, mi feci una canna, fui mandata via. Il mio orgoglio malato, il mio giudizio contorto mi facevano criticare ogni cosa. Ritornai ancora, però, al centro di trattamento… rimasi finalmente pulita. Un giorno, mentre eravamo tutti a tavola, mi sentii felice e mi si aprii il cuore alla vita e alla sua completezza. Sentii sul mio corpo la carezza della brezza, ascoltai le chiacchere degli altri, pensai che la vita fosse bella. Mi sentii felice dopo tanto tempo. Uscii e andai ai gruppi… ricaddi ancora qualche volta… però frequentavo sempre.

Mi costava ammettere le ricadute, mi sentivo male, giudicata, avevo paura di non farcela.

Nei giorni di “pulizia” dalle sostanze, intanto, iniziavo a vedere la verità: mi stavo uccidendo. Vivere era insopportabile dopo ogni ricaduta, decisi così di concentrare tutte le mie energie e le mie azioni su un solo obiettivo: rimanere pulita. Mia madre veniva ai gruppi con me e faceva quelli dei familiari (FA). Andavamo con l’autobus… Era pesantissimo per me fare il tragitto per andare alle riunioni. Ero piena di rabbia, ero folle… un giorno presi a calci un cartellone nella metro, davanti allo sguardo impietrito di mia madre… non ce la facevo più. Era impossibile stare serena, usando e non usando.

Un giorno, mi si ripresentò la possibilità di usare. Avevo rubato i soldi e la macchina a mia madre, nel tragitto bucai e cambiai la gomma… il pusher non c’era e dovevo aspettare… pensai a tutte le volte che avevo aspettato, a quella sensazione di angoscia, a tutti i guai, alla gomma bucata… Per la prima volta decisi di non aspettare e mi rimisi in macchina. Mentre tornavo a casa ero seria, ma consapevole: pur non avendo avuto “l’aiuto” della sostanza che, lì per lì, ti dona momenti di felicità ad un prezzo sempre più alto, riuscivo comunque a sentirmi meglio. Mia madre mi aspettava con la porta aperta, le ridiedi le chiavi e i soldi, le chiesi scusa: “Non mi dire niente, non lo faccio più…”.

Da quel momento, iniziai a recitare la “Preghiera della serenità”, ogni volta che avevo dei pensieri… Iniziai a pensare che i miei pensieri non erano veri, ma solo una conseguenza del volere usare, mi affidai al mio Potere Superiore e al gruppo, dove si condivideva paura, forza e speranza. Piano piano, iniziai a riconoscere e ad abbandonare le mie riserve. Soldi non ne volevo più e non ne avevo, iniziai ad apprezzare gli aiuti di mia madre, degli altri. Tutti mi avevano sempre aiutato… non volevo più stare sola, ogni occasione era buona per stare con gli altri dipendenti in recupero… l’importante era andare al gruppo e stare pulita, qualunque cosa potesse succedere.

Ho conosciuto la vera gioia e la potenza della pulizia… sono riuscita a preservare il mio recupero, seguendo le indicazioni degli altri, avendo una sponsor (un’altra dipendente che aveva fatto il programma prima di me) che mi ha guidato e sostenuto sempre nel mio recupero, in maniera assolutamente disinteressata e gratuita.

Capii che mi ero arresa ad essere dipendente per sempre, in ogni ricaduta… pensando che la vita senza droghe non fosse per me… ora, invece, ero pronta, un giorno alla volta, ad arrendermi al recupero. Frequentavo i gruppi senza giudicare gli altri, avrei fatto i Passi, avrei scelto uno sponsor, avrei aiutato altri dipendenti che me lo avessero chiesto, in quanto credevano in me e nel mio recupero. Come gli altri hanno creduto in me e nel mio recupero e sapevo che, finché avessi accettato questo nuovo modo di vivere, non avrei avuto più nulla da temere. Sì, ero pronta a farlo anche per tutta la vita.

La verità è che la dipendenza non permette compromessi. E’ una malattia fisica, mentale e spirituale. Progressiva e mortale. Si può solo arrestare con la pulizia e il recupero. Lo so è difficile uscire dalla pazzia, uscire dalla falsa verità, a volte mi è sembrato impossibile, ma oggi so che non era vero.

Dall’ultima volta che ho usato sono passati 17 anni. Ho una famiglia mia, un marito, una figlia splendida come lo ero io, prima che la malattia si manifestasse, ma anche durante e dopo, nonostante gli effetti devastanti della dipendenza. Per lei desidero tutto il meglio, ma, se avessi un solo desiderio da esprimere, chiederei che lei avesse sempre con sé le tre cose che, una volta accolte, mi hanno salvato la vita: l’onestà, l’apertura mentale e la buona volontà che ti permettono di accettare la tua realtà e di cambiare ciò che si può cambiare, quando le cose vanno male.

Io non posso cambiare il fatto di essere una dipendente, ma posso arrestare questa malattia, non inserendo nel mio corpo quelle sostanze che scatenano il circolo vizioso. Poi, siccome la dipendenza è una malattia non solo fisica, ma anche mentale e spirituale, nonostante gli anni trascorsi, continuo a fare il programma di recupero e a condividere con gli altri il grande dono della rinascita che mi è stato donato e che, dopo tante resistenze, ho saputo accogliere.

 

 

 

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