Che l’avvento e la diffusione di Internet, rete di comunicazione del progetto Arpanet degli anni ’60, abbia determinato una trasformazione inarrestabile nel mondo del giornalismo è storia già nota. La Stampa nel 1994 definisce ogni Paese una sorta di “Nazione invisibile”. Anno della svolta online in Italia è il 1995, con “Unione Sarda”, e “Unità”, i quali rivendicano rispettivamente i ruoli di primo quotidiano europeo online e primo giornale nazionale online, e successivamente con il “Sole 24 Ore” e “Repubblica.it”.
Profeta del mutamento Indro Montanelli, padre del giornalismo italiano che nel 1997 confessa di non capire cosa sia un giornale online ma di essere consapevole che non ci sarà mai più spazio per il giornalismo amato dalla sua generazione. Fiumi di inchiostro digitale scorrono per un ventennio, sterile bagarre tra i fautori del multimediale che prevedono il declino della carta stampata e operatori del settore che si ostinano a mantenerla integra e sclerotizzata in grigi quotidiani immensamente stagnanti che le nuove generazioni non sanno neanche più sfogliare. Nonostante tutto il sisma internet ha costretto giornalisti, editori e tipografi alla sopravvivenza oltre il testo, rivedendo metodi divenuti ormai obsoleti nella condivisione dei contenuti.
Dall’edicola alla breaking news
Nell’era delle breaking news che spuntano dagli smartphone, informando in tempo reale chiunque su tutto ciò che accade all’umanità tutta, e per di più con l’ausilio di immagini visive e in movimento e nella città dove nasce nel 2006, grazie ai cofondatori Arianna Ciccone e Chris Potter il Festival Internazionale del Giornalismo, il più grande evento mediatico annuale in Europa, giunto ormai alla dodicesima edizione e che si svolgerà quest’anno dall’11 al 15 aprile 2018, qualche nostalgico politicante locale si occupa della “rigenerazione delle edicole” poiché negli ultimi decenni si è assistito alla chiusura di una edicola su quattro, e si inneggia alla catastrofe.
Rigenerazione impossibile, poiché che il giornale è come il pesce, e a mezzogiorno puzza, era già noto negli anni Novanta, trasformazione possibile, se rinascessero come mini-librerie (altro prodotto in estinzione).
La carta stampata conserva intatto il suo profumo solo nello sfogliare libri, immergendosi nella magia della narrativa e nel mistero della poesia. Eccetto, naturalmente uno scaffale riservato alla cronaca calcistica per mantenere inalterata la più potente arma di distrazione di massa necessaria alle nuove classi dirigenti e uno ai settimanali di gossip, prodotto indispensabile nei salon parrucchiere per alimentare e conservare la sindrome del grande fratello (purtroppo non il capolavoro di Orwell ma il più becero prodotto del berlusconismo).
Dalla testata online al singolo articolo
Il “New York Times” si è occupato recentemente dei rapporti tra Facebook e il futuro del giornalismo, e di quanto stia cambiando il consumo di notizie. “Non si digitano più gli indirizzi web dei quotidiani” specifica Cory Haik, senior editor delle news digitali al “the Washington Post, poiché gli utenti arrivano ai singoli articoli attraverso i social, perciò il giornalista del terzo millennio non può prescindere da Facebook, l’astensionismo dei nostalgici genera l’autoesclusione.
Il mondo della musica ha già superato il mutamento, l’utente può acquistare la canzone prediletta on line e non l’intero album, mentre il mondo dell’editoria vive la transizione in trincea, sfidando Amazon, in uno scontro di potere sterile in un fenomeno che cambia i concetti cardine dell’editoria ed è irreversibile. In Italia sembra che un ventennio non sia abbastanza lungo per reinventarsi, del resto nel Paese dei gattopardi il processo per le stragi di Falcone e Borsellino non si è ancora concluso e a candidarsi alle prossime elezioni saranno i protagonisti, mandanti ed eredi della stessa, ovvero le opzioni politiche individuate dall’appena defunto Capo dei Capi (R.I.P) ma non troppo.
La Social Revolution
La responsabilità del giornalista o aspirante tale ha un unico sentiero percorribile, oltre a rispettare la Carta dei Doveri dell’8 luglio 1993, ovvero distinguersi dal punto di vista etico e deontologico nell’informare, nell’eterno dilemma tra il fatto e l’opinione, e planando oltre le fake news. Del resto, che chiunque possa esprimersi è un’altissima forma di democrazia, anche se Umberto Eco scatenò un feroce dibattito quando nel giugno 2015 affermò che: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività”. Così è, se vi pare.
Che si esprima chiunque, e si distingua chi può, unica scommessa da non perdere, poiché raccontare è vivere, e soprattutto: “L’obiettività è un ideale, è un traguardo. Chi si avvicina di più è più bravo, ma nessuno la raggiunge”, e lo disse proprio Indro Montanelli, il miglior protagonista dell’età d’oro della stampa, il primo a capire che avrebbe perso tutto il suo splendore.