Mercoledì 28 febbraio salta alle cronache un episodio raccapricciante, la cosiddetta Strage di Latina.
Un carabiniere spara alla moglie, riducendola in fin di vita, si barrica in casa, uccide le figlie e si suicida.
La tragedia è in realtà una mattanza annunciata, che si sarebbe potuta evitare.
È la vita negata a due bambine di 13 e 8 anni, Alessia e Martina. È la condanna eterna a sopravvivere oltre la morte delle proprie figlie di Antonella Gargiulo, ferita con tre colpi di pistola alla mandibola, addome e scapola.
Quando le sarà rivelata la tragedia lei potrà solo sopravvivere. Forse, il miglior augurio che si potesse fare ad Antonella era di morire, per poter riabbracciare le sue bimbe, destinazione Paradiso.
Mentre Luigi Capasso dovrebbe marcire all’Inferno, insieme ai responsabili di questa reiterata omissione di soccorso. E ce ne sono, seppur tutti affetti da amnesia collettiva.
La ricostruzione dei fatti della strage di Latina
Mercoledì 28 febbraio Luigi Capasso, appuntato dei carabinieri in servizio a Velletri, 43 anni, originario di Secondigliano, esce dall’alloggio che aveva ottenuto in Caserma nel settembre scorso da quando la moglie lo aveva allontanato, dopo essere stata aggredita, temendo per la sua incolumità e quella delle figlie.
Antonella aveva avvisato i superiori (e colleghi) del marito, aveva presentato un esposto alla Polizia e aveva cambiato la serratura della porta.
Il 29 marzo si sarebbe tenuta la prima udienza per la separazione giudiziale.
Capasso alle 5 del mattino si introduce nel garage quando la donna che stava per recarsi al lavoro, operaia alla Findus di Cisterna, e le spara, ferendola gravemente.
Le sottrae le chiavi dalla borsa, sale in casa e spara a Martina, 8 anni mentre dorme nel lettone, e ad Alessia, 13 anni, svegliata dagli spari, nella sua cameretta. Un colpo alla schiena e uno all’addome.
Una vicina chiamerà i soccorsi vedendo il corpo ferito di Antonietta.
Presenti sotto la palazzina il Comandante provinciale dei carabinieri di Roma Antonio De Vita, il Comandante della caserma di Latina Gabriele Vitigliano, il magistrato di turno, il gruppo di intervento speciale, un elicottero che vigila per evitare la strage in realtà già compiuta, il parroco Don Livio, che conosceva bene Antonella, assidua frequentatrice della parrocchia e un’amica di famiglia.
Tutti riuniti nell’inutile tentativo di evitare la mattanza. Luigi Capasso rimane barricato nell’appartamento per 9 lunghe ore durante le quali i “negoziatori” cercano di convincerlo a desistere da quelli che si riveleranno due infanticidi già commessi.
Intorno alle 14,30, dopo che le trattative erano state interrotte da circa un’ora e dopo aver sentito uno sparo, i carabinieri fanno irruzione nell’appartamento, dove troveranno i corpi delle bimbe uccise e quello di Luigi Capasso, suicida dalle 13,15. Durante la mattina il Comandante Gabriele dirà: “Temiamo per il peggio ma non abbiamo ancora notizie sulle bambine”, confermando che Luigi non avesse altre armi oltre alla pistola d’ordinanza, come se il fatto fosse di per sé rassicurante.
E dimenticando che i presupposti per privare l’appuntato dell’arma ci fossero già tutti. E più tardi confermerà: “Le bambine, come temevamo, sono morte verosimilmente questa mattina”. Noi temiamo invece, e ripetiamo, che questa è una storia di straordinaria omissione di soccorso. E lo spieghiamo.
Nella strage di Latina c’è premeditazione del reato e la sottovalutazione delle denunce
Il 7 settembre scorso Antonietta decide di presentarsi alla Questura di Latina depositando un esposto che scrive a mano.
È spaventata, poiché il marito si è presentato fuori dalla fabbrica dove lavorava strattonandola, ossessionato dalla gelosia, ennesimo episodio di violenza subito dalla donna.
Sceglie di non presentare denuncia perché Luigi era già stato sospeso dal servizio per una truffa alle assicurazioni e la nuova accusa, se denunciata, avrebbe messo a rischio il posto di lavoro.
Precisiamo che un esposto è comunque una richiesta di intervento delle autorità competenti.
Il mese successivo chiede l’intervento dei servizi sociali perché non vuole che il padre veda le figlie da sole.
ll 29 gennaio Luigi si presenta alle 8 del mattino sotto casa e quando lei, spaventata chiama i soccorsi, Luigi spiega alla Volante giunta sul posto che stava aspettando alcuni amici per prendere il caffè, mentendo.
Verrà convocato in Questura il 30 gennaio, fingendo di essere pentito e raccontando di voler tornare a casa, sperando che la moglie lo faccia rientrare.
Anche se solo una settimana prima aveva presentato un esposto contro la moglie chiedendo di rientrare in casa per riprendere i suoi effetti personali. In realtà solo per tormentarla. Si dice che fosse un buon padre, ma ricordiamo che un uomo violento non potrà mai esserlo veramente. Antonietta si era già recata già nella caserma dove lavorava Luigi a raccontare ciò che stava accadendo.
A nessuno interessava, la visita psicoattitudinale alla quale era stato sottoposto Luigi l’aveva reso idoneo al servizio. Eppure era stata vittima di aggressioni verbali e fisiche.
Tutti sapevano che il loro era un matrimonio conflittuale da sempre, aveva raccontato le discussioni accese avvenute davanti alle figlie e di essere stata presa a sberle. Stanca di subire si era decisa a lasciare l’uomo sposato nel 2001 lo scorso settembre. Antonietta era anche certa che lui avesse un’amante.
Nonostante ciò Luigi, non elaborando il rifiuto e la scelta di Antonietta di lasciarlo, continuava a stalkerizzarla inviandole messaggi e telefonate in continuazione, pur vivendo una storia parallela. Benché tutti sapessero di quanti episodi di violenza avesse manifestato, a nessuno è venuto in mente di privarlo della pistola d’ordinanza. E di soluzioni, ce ne sarebbero state molte, anche salvando il lavoro.
Sembrava normale, diranno dopo i colleghi dell’Arma, con dolore e stupore, e soprattutto, mentendo.
Sembra non si fossero accorti che la situazione era drammatica. Il virus “amnesia collettiva” è piuttosto frequente quando una donna racconta di essere maltrattata, piuttosto, viene sottovalutata e giudicata.
Semplicemente, se l’è cercata, provocando la rabbia legittima di questi poveri diavoli indifesi e offesi.
Va da sé che sembrano normali prima, e magari anche simpatici. Altrimenti le donne non si innamorerebbero né li sceglierebbero come partner dei loro figli. L’avvocato della donna, Maria Belli parla chiaro, Antonella l’aveva detto: “Tenetelo lontano da me e dalle bambine”. E conferma che con i superiori del marito ed il Comandante della caserma aveva parlato, come spiegherà in un’intervista.
Dopo la tragedia, verranno alla luce i particolari raccapriccianti di una storia che non ha niente a che fare con la “follia omicida” o il “raptus”. Luigi aveva premeditato tutto nei minimi particolari. Aveva lasciato disposizioni ai fratelli per i funerali della sua famiglia, diecimila euro, aveva lasciato cinquemila euro all’amante. Sapremo che le bambine temevano il padre. Ricordiamolo, un uomo violento non potrà mai essere un buon padre. La follia non c’entra, è solo il “libero arbitrio”, di scegliere la violenza e attuarla con assoluta lucidità, curando ogni dettaglio. È la vendetta contro tre donne che considerava oggetti di sua proprietà, e che invece si sono permesse di allontanarlo, poiché lo temevano.
Riscontriamo che il “virus amnesia collettiva” è pericolosamente potente quando una donna racconta di maltrattamenti. Alcuni sorvolano considerandolo un fatto privato (che non è) altri insinuano un’attitudine al femminismo o al vittimismo, o addirittura, all’autocompiacimento, negando di fatto l’emergenza “femminicidio”, confrontando le reciproche violenze psicologiche e/o ricatti subiti dall’altro genere. Come se fosse scoppiata una guerra tra uomini e donne. Ma va da sé che l’unica arma possibile è l’educazione, il dialogo, ma anche il poter operare con una task force adeguata sempre pronta ad intervenire per proteggere le vittime ed evitare tragedie. Ricordiamo che “il “femminicidio” è un neologismo inserito nel vocabolario e nel codice penale italiano per definire un reato che, fino a poco meno di quarant’anni fa, era previsto dalla Giurisprudenza italiana: il Delitto d’onore” (Non è colpa mia). Il magistrato Roia, in un’intervista a FqMillenium del 2 marzo 2018 spiega chiaramente che perdere attimi di fronte ad una segnalazione è una tra le cause di femminicidio. La risposta dello Stato alle donne che denunciano minacce e stalking è spesso insufficiente. Le denunce vengono lasciate nel cassetto. Oppure vengono sottovalutate dal giudice. Mentre di fronte ad una denuncia è necessario “procedere immediatamente”, perciò suggerisce modifiche alla legge approvata cinque anni fa, che si può migliorare. Non solo per il femmincidio, ma anche per lo stupro i tempi per le condanne sono biblici.
I tempi della Giustizia in Umbria, due casi emblematici relativi allo stupro
A Perugia, una ragazza di 24 anni, picchiata e violentata fuori dal Cantiere 21 nel 2011, dal benzinaio Matteo Cincini, 31 anni, ha ottenuto giustizia lo scorso febbraio, a sei anni dall’accaduto.
A Passignano, una donna violentata dal cugino nel 2010 ha ottenuto giustizia lo scorso ottobre 2017, a sette anni dall’accaduto. Nel frattempo ha avuto il tempo per portare a termine un altro stupro, anche se già dal 2005 aveva tentato di affogare la fidanzata.
Ma ecco a voi i tempi della Giustizia Italiana nei casi di stupro, una media di 7 anni per una sentenza. E anche quando si arriva alla condanna i colpevoli scontano pochi anni per l’orrore commesso e poi vengono lasciati liberi, poiché di fatto non hanno ammazzato nessuno. Del resto anche coloro che compiono femminicidi tornano liberi, figuriamoci gli stupratori, si prendono una pausa di qualche anno, e poi ricominciano.
Le amnesie collettive
Detto ciò, fate in fretta, forze dell’ordine, non innervositevi né perdete la memoria, vigileremo sulla vostra operatività. I vostri tempi biblici non coincidono con i nostri. Siamo una “rottura di coglioni” è evidente, ma è solo una forma di autodifesa. Antonietta è una vittima dell’ennesima omissione di soccorso. E voi dovete imparare a tremare, come tremiamo noi quando un uomo ci minaccia, ci maltratta, ci ricatta, ci ingiuria, solo perché non lo vogliamo più. E ce ne fregheremo se vi nascondete dietro al dito “il soggetto non lo conosciamo”, poco male ve li presentiamo noi.
La mia testimonianza, dall’accoglienza delle forze dell’ordine al potere dell’informazione
Lo scorso anno sporsi querela orale in seguito a minacce, insulti e ricatti verbali da parte di un uomo che avevo scelto di non vedere mai più, e al quale avevo brevemente comunicato che alla prossima ingiuria sarebbe seguita una denuncia. Nei giorni precedenti chiamai i numeri delle forze dell’ordine, per conoscere la procedura da seguire. Mi spiegarono con dovizia di particolari che seppur quello subito fosse un “reato minore” andava immediatamente denunciato per prevenire un fenomeno dilagante. E una volta identificato il persecutore mi informarono che il soggetto aveva, peraltro, precedenti penali. In occasione della denuncia, al contrario, non ho ricevuto, almeno all’inizio, la stessa disponibilità all’ascolto. Anzi mi fu risposto “Non lo conosco, attenda”. Risposi con determinazione che era mia intenzione procedere, a prescindere dal dettaglio trascurabile che fra agenti e detective vari non era noto.
Dunque, mi sento di dire, se incontrate qualche difficoltà non demordete, continuate a denunciare, e se necessario chiedete appoggio alle associazioni. Di fatto le minacce continuarono lo stesso: “Vai a ritirare la denuncia, non fare cazzate, non farmi andare in Tribunale perché ti pentirai”, ed altro, tantochè tornai ad integrare la querela con Vanna Ugolini, la presidente di Libertas Margot, associazione che si occupa di violenza di genere, tutela dei diritti umani e sicurezza delle persone. Ricordiamo che l’appoggio delle associazioni è fondamentale nel dare un valore aggiunto ai nostri appelli, spesso inascoltati. Successivamente, quando chiesi “i tempi” del procedimento mi fu risposto, “Tempi normali”.
Eppure i tempi sono tutto. Lo scorso ottobre dovetti tornare a comunicare che intendevo ancora perseguire penalmente il soggetto, perché la Procura in caso di “reato minore” chiede se nel frattempo si è cambiata idea. Quanta solerzia per evitare un rinvio a giudizio, eppure i fatti erano esposti con chiarezza. Ad oggi, a distanza di nove mesi, nulla è accaduto.
La potenza dell’informazione
Sperimentai la potenza dell’informazione quando nel giugno 2017 raccontai la storia precedente in forma di fiaba, l’articolo, oggi riproposto su Umbria Oggi ebbe l’effetto di far desistere il soggetto maltrattante da ulteriori ricatti e inviti a ritirare la querela da parte dei suoi protettori e amici, i quali si riconobbero nei personaggi di: “Alice nel Paese della consapevolezza. Una storia raccontata come una fiaba”, e smisero di tormentarmi, seppur furono colpiti da amnesia collettiva, poiché non solo fui punita con la morte civile, ma Manlio, Brunella, Paolo, Walter, Stefanella, Massimo, incontrandomi fecero finta di non avermi mai conosciuta, e non vidi mai più nessuno di loro. Si schierarono tutti con il carnefice, e non con la vittima delle ingiurie subite (io) quando seppero che non avrei mai ritirato la querela.
Le Vostre testimonianze e la nostra accoglienza
Intenzione di questa rubrica è raccogliere le Vostre testimonianze, qualsiasi esperienza abbiate vissuto nel subire e denunciare maltrattamenti ricevuti ed eventuali appelli inascoltati, sia dalle forze dell’ordine che dai vostri migliori amici, in modo che le voci di donne emergano, con discrezione e riservatezza, se temete le conseguenze nel rendervi individuabili, o con i vostri nomi se non c’è rischio per voi. Una “task force” necessaria a fronteggiare un’emergenza nazionale poiché, ricordiamo: “La violenza è una scelta”, come spiegano bene Lucia Magionami e Vanna Ugolini nel loro libro: “Voci di uomini che hanno ucciso donne”, una serie di interviste realizzate ad uomini che hanno ucciso la loro partner con sentenze di colpevolezza definitive. E non subire né la violenza né nessun’altra omissione di soccorso sarà la nostra missione.
Cristiana Dominici