Mentre nel dibattito politico odierno e moderno avanzano le cosiddette “quote rosa”, il rosa della tradizione ricorda ancora il suo passato splendore.
Così sembra confermare la recente mostra della Galleria Nazionale di Perugia per rendere omaggio a Taddeo di Bartolo (1362 ca.-1422). Le opere del pittore di origine senese, infatti, sono ambientate in una sala che riproduce gli spazi di una chiesa trecentesca e sono soffuse dal rosa acceso delle sue pareti. Prima dell’allestimento ad hoc della moderna sala, c’è tutto il peso delle rosate pietre di Perugia. Come non riconoscere una perfetta rispondenza fra le carnali tonalità del Palazzo dei Priori, sede della Galleria, e la buona educazione delle pareti della mostra, suo ospite moderno? Anche l’analogo colore della copertina del catalogo, curato da Gail E. Solberg, testimonia la centralità assunta dall’aspetto cromatico. Inoltre, stagliate in prima pagina, campeggiano le rose portate in grembo ed appena sfiorate dalle dita di sant’Elisabetta d’Ungheria.
Siamo di fronte a quei casi, non sporadici nella storia dell’arte, in cui a veicolare il curioso spettatore è un dettaglio del dipinto, di facile memoria grazie alla tonalità che lo risalta. Da ciò, e non tanto dal suo generico titolo “Taddeo di Bartolo”, è riassunto l’allestimento e il fondamentale nucleo tematico dell’esposizione. Nata per riunire il maestoso eptittico bifronte (sette tavole verticali su entrambi i lati) (1403), un tempo sull’altare maggiore della chiesa perugina e francescana di San Francesco al Prato ed oggi in gran parte conservato nel museo perugino, la mostra è andata ben oltre, divenendo la prima monografica mai organizzata sul pittore. L’elevato corpus di opere provenienti da tutto il mondo consente di focalizzare l’attenzione sulla movimentata carriera di Taddeo, sviluppatasi fra importanti itinerari toscani, liguri ed umbri.
Seguendo l’evoluzione storica della sua carriera, l’anonima paternità della Crocifissione della Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena offre un assaggio dello spessore critico della mostra, fondata non su granitiche certezze ma su enigmi ancora da risolvere. L’inedito documento che dimostra come Taddeo era stato pagato nel 1382 dall’Opera del Duomo per la dipintura di una Crocifissione su un messale romano, avrebbe potuto portare ad arrischiare il nome del nostro sul cartellino dell’opera. E, invece, ancora una volta è il dubbio inizio della sapienza. In una gradazione che va, appunto, dal not name della Crocifissione alla sicura attribuzione delle due cuspidi della smembrata pala di Collegalli, v’è spazio per il verosimile riconoscimento della sua ‘firma’ nelle due tavole del Museo delle Biccherne dell’Archivio di Stato di Siena: Taddeo di Bartolo? La cuspidata annunciazione dell’Arcangelo Gabriele alla Vergine raggiunge, dunque, una verità solo adombrata dalle scene di genere che fungevano da copertina dei libri contabili dell’ufficio finanziario senese della Biccherna.
Gli echi dei capostipiti della pittura senese – Duccio e Simone Martini – rumoreggiano ancora nell’elegante ritmo dell’arcangelo che incede verso Maria e nel ritirarsi di Maria alle parole del nunzio divino. Rinnovata dall’influsso di più anziani pittori quali Jacopo di Mino del Pellicciaio e Bartolo di Fredi, suoi contemporanei, la formazione di Taddeo risente fortemente del contesto artistico senese della sua epoca. Successivamente, intorno al 1390, il San Giovanni Battista conservato nel Museo Nazionale di San Matteo di Pisa è probabile segni l’approdo dell’artista nella repubblica marinara, apripista per le successive peregrinazioni genovesi.
Con le tre cuspidi dello sfavillante trittico del Duomo di Montepulciano (1401) rappresentanti l’Annunciazione e l’ Incoronazione della Vergine, Taddeo sancisce il suo ritorno nella natìa toscana. Al di sotto del prezioso manto della Vergine assunta in cielo, tavola centrale del trittico, tra gli apostoli sgomenti nel rilevare la sparizione del corpo dell’immacolata, il pittore raffigura sé stesso sotto le sembianze di san Taddeo, suo santo eponimo. Agli sguardi di intesa, ai bisbigli appena accennati volti a chiarire la situazione e rivolti, come in uno specchio riflettente, dai personaggi del dramma gli uni agli altri, Taddeo, indifferente a qualsiasi disputa teologica, rivendica la sua laica autonomia. Invita lo spettatore a partecipare alla scena sacra, di cui egli si sente di far parte in virtù del ruolo sociale assunto dall’artista nel corso del XIV e XV secolo, alla stregua del contemporaneo autoritratto di Cola Petruccioli in San Domenico a Perugia.
E veniamo proprio all’eptittico perugino, fulcro della presente esposizione. La posizione assunta al centro dell’effimera ambientazione chiesastica stabilisce immediatamente un rapporto privilegiato con l’osservatore. Se, però, l’allestimento garantisce, come nella sua originaria destinazione, un’analoga visione spaziale, di recto e verso, diverse sono le seduzioni visive che accompagnano il moderno e l’ antico visitatore.
Pur non considerando quel fondamentale fenomeno di estetizzazione del mondo, in cui progressivamente il senso estetico prende il posto del significato religioso, il turista del fedele, il curioso uomo di oggi può servirsi di tutta una serie di confronti con altre opere, di utili cartellini informativi, di pannelli riassuntivi di cui i francescani di San Francesco al Prato non potevano disporre.
Sin dal principio l’originario luogo dell’eptittico, con gli affreschi del Maestro di San Francesco al Prato (1330 ca.) e le successive aggiunte raffaellesche della Pala degli Oddi (1503) e della Deposizione Baglioni (1507), scontava una minor coerenza stilistica. Quale differenza è percepibile al cospetto dei frammentari polittici – più o meno riassemblati – che nelle sale anteriori e posteriori intessono la storia cronologica e tipologica del capolavoro di Taddeo? E non solo la lirica Annunciazione del pentittico Collegalli sopra accennata ma anche lo ieratico Cristo, cuspide del pentittico pisano per la Chiesa di San Paolo all’Orto (1395), o la grifagna Natività per la senese Santa Maria dei Servi (1404) avvertono e seguono i successivi esiti del pittore.
Nella tavola centrale del capolavoro perugino rivolta ai fedeli appare una Madonna col bambino, coronata ed accompagnata da angeli musicanti in primo piano e da fiammeggianti cherubini nelle retrovie. Dalla sinistra alla destra della Vergine compaiono i santi Chiara d’Assisi, Giovanni Battista, Maria Maddalena, Caterina d’Alessandria, Giovanni Evangelista, Elisabetta d’Ungheria, al di sopra di tre predelle raffiguranti la Predica agli Uccelli, Miracolo della Fonte, Presepe di Greccio e ipoteticamente al di sotto del cuspidato Redentore benedicente (non esposto). Nella sezione centrale verso i frati è dipinto san Francesco mentre calpesta i vizi e mostra le stigmate attorniato da cherubini. Dalla sua sinistra alla sua destra assistono alla scena i santi Ercolano, Antonio da Padova, Pietro, Paolo, Ludovico di Tolosa, Costanzo, sotto i quali sono visibili in forma di predella la Prova del Fuoco, l’ Approvazione della regola, la Visione del carro di fuoco, l’ Apparizione al concilio di Arles, e sopra i quali il cuspidato Redentore mostra le piaghe.
Ma torniamo al filo iniziale, ai petali di rosa. Alla visione della pala nella sua interezza, notiamo altresì la predilezione di Taddeo per il rosa e per le rose. I fiori di Elisabetta confermano l’indizio fornito dalle tinte più o meno rosate del manto di san Giovanni Battista, di santa Caterina d’Alessandria, della duplice versione cuspidata del Cristo e della veste del vizio calpestato. La concordia storica fra interno ed esterno non poteva essere più armonica: alle pietre rosate di san Francesco al Prato corrisponde il colore principe del suo capolavoro. Per di più, il San Giovanni Battista del Museo Diocesano d’Arte Sacra di Siena avvolto nel suo pesante ed immenso mantello rosè, che nasconde quasi completamente la pelle di cammello, dimostra ulteriormente le preferenze di Taddeo. Pur aggravato dalle sofferenze del deserto, il Battista non rinuncia alla croce e all’eleganza, scoprendosi, anzi, arbitro di quest’ultima.
Dott. Alessandro Gatti